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Gianni Minà suona la grancassa della menzogna. 'La Stampa' ospita una sua intervista–comizio in onore del regime cubano
24 Agosto 2011
 

Fulvia Caprara, giornalista esperta di spettacoli ospita Gianni Minà su La Stampa e realizza un’intervista compiacente, di quelle che piacciono tanto ai dittatori e ai loro epigoni. Ormai lo sanno tutti che il buon Minà sarà ospite al Festival di Venezia per presentare un suo film-documentario su Cuba, finanziato dal regime. La Stampa pubblica i commenti di Yoani Sánchez, ma ha intervistato Minà per ben due volte in quindici giorni, dando modo al giornalista esperto di Cuba di esprimere le sue opinioni, che sono perfettamente in linea con gli articoli di fondo del Granma e con i commenti di Cubavision.

Gianni Minà ha girato Cuba nell’epoca di Obama (con i soldi della famiglia Castro), per raccontare «una gioventù colta e piena di speranze che a breve dovrà inevitabilmente succedere ai vecchi combattenti della Revolución». Di quali giovani parla Gianni Minà? Non certo dei blogger, dei rapper, dei ragazzi che organizzano festival musicali alternativi, dei dissidenti, degli scrittori messi al bando. No, lui parla dei giovani comunisti, della nomenclatura che affama il popolo e che lo tiene in una situazione di sottocultura e di sottosviluppo. Gianni Minà straparla di «un nuovo apparato politico cubano, composto da giovani colti, educati alla solidarietà, poco attratti dalle lusinghe del mercato». Tutta gente che esiste solo nella scatola dei sogni, perché la speranza di Cuba non va riposta certo negli eredi dell’apparato, nei burocrati, nei poliziotti della Sicurezza di Stato e nelle componenti mistificatorie della pseudo-politica.

Minà nel suo documentario ha filmato tutte le istituzioni statali, dall’Università, alla scuola d’arte, passando per la scuola di cinema, per finire con i corsi di scrittura creativa tenuti da García Marquez. Il lavoro realizza l’immagine di un paese di Bengodi inesistente, composto da ragazzi laureati, privi di problemi ed entusiasti di un mondo quasi perfetto. Il solo problema di Cuba sarebbe l’embargo, ma Gianni Minà si spinge oltre, condanna pure la base statunitense di Guantanamo, che per i cubani è una meta di sogno per fuggire dall’inferno tropicale. Minà parla di dialogo tra Obama e Castro, con la mediazione di Carter, e fin qui poco male, ma quel dialogo dovrebbe essere cercato anche dal regime cubano, che mette sempre davanti solo lo schermo dell’embargo. Minà tocca il fondo quando parla di «un presente effervescente e vitale» e cita come cantautori simbolo del regime due persone così diverse come Pablo Milanés (che da tempo si è dissociato dai Castro) e Silvio Rodriguez. Inserisce nel novero dei grandi cantori della patria Roberto Fernandez Retamar e Alicia Alonso, ma persino Harry Villegas detto Pombo e non contento cita come scrittore simbolo niente meno che Abel Prieto, il ministro della cultura! Nemmeno una parola su Yoani Sánchez, che secondo lui non esiste, ma è un’editorialista de La Stampa e di molti periodici mondiali, al solito per merito della CIA.

Minà conclude lamentandosi che nessuno lo sta a sentire, che la Rai non lo invita a parlare e non ripropone le sue trasmissioni. Ma chi vuol prendere in giro? Il suo documentario finanziato dal governo cubano per propagandare menzogne sarà proiettato al Festival di Venezia, un quotidiano come La Stampa lo intervista due volte in quindici giorni, concedendo spazi di mezza pagina… La pazienza dei veri democratici ha un limite. Spero che le associazioni dei profughi cubani organizzino un lancio di pomodori in occasione del Festival di Venezia, durante la proiezione di questo filmaccio di regime, e che non manchino il bersaglio.

 

Gordiano Lupi


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