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Enrico Marco Cipollini. L'uomo contemporaneo e la crisi del valore
23 Agosto 2011
 

Noi stiamo vivendo, e non solo epidermicamente, una profonda crisi già messa in evidenza in letteratura da Kafka, si vedano Il castello e Il processo. De facto, noi assistiamo ad una condizione di frantumazione del soggetto che è al di là, fuori, estraniato dalla società. È il famoso «cogito ergo est» di Nietzsche, cui non abbiamo ancora pagato i debiti alla sua filosofia, ma qui vediamo anticipare l'inconscio, l'altro che è in noi o, problematicamente, sfugge a noi.

Viviamo in una realtà che più non appartiene al Soggetto, è fuori di lui: una realtà codificata, istituzionalizzata che reprime e quando non ci riesce divora, schiaccia, disumanizza, rendendo altro da sé l'uomo. Assistiamo fattivamente alla scomparsa dell'individuo in tutta la sua concretezza e lo vediamo venire vuota astrazione, vuota forma nell'istituzione totalizzante del sistema socio-economico.

Tale schizoidia, tale piatto livellamento è il fattore discriminante della perdita della nostra identità, onde per cui non si vive con ogni nostro porro ma si sfiora il vivere autentico, siamo divenuti ciò che aveva visto con chiarezza H. Marcuse ne L'uomo ad una dimensione oppure in Eros e Civiltà. Si vive l'amore con la maiuscola o si fa semplicemente del sesso? e l'arte, la cultura? Massificate per i più onde si avverte una cultura d'élite inavvicinabile e non intelligibile contrapposta ad una cultura o sub-cultura di massa, massificata meglio ancora.

Abbiamo gettato via l'ideologia marxista ma ne abbiamo accettata acriticamente un'altra: quella del cosiddetto «turbo-capitalismo» come se il mercato si potesse, lasciato a sé, dare regole equanimi e precise. Illusioni. Illusioni e conseguenze che pagano in modo precipuo i giovani i quali sono per duttilità mentale, i più atti a recepire, anche in modo passivo, i dettati dell'esteriorità e non del valore che seriamente è messo in crisi. Quindi non crisi dei ma del valore in sé e per sé. Sentirsi in crisi pertanto è l'unica strada percorribile per evitare tentazioni irrazionalistiche o comunque che si ritorcono su chi si ribella ad una situazione insostenibile.

O si possiede un'isola per ritirarsi dalle questioni suddette oppure bisogna affrontare con spirito critico tali tematiche.

Le buone notizie, si sa, non fanno cronaca onde bisogna, è una nostra esigenza trovarci degli spazi teorici nostri autentici affinché si possa donare quella vitalità, quell'energia di cui abbiamo e sentiamo tanto mancarci: l'autenticità dei nostri problemi di individuo, cioè non divisibile dall'etimo originario latino (in-dividuus).

Di quelle certezze, di quei valori spirituali e formanti di cui sentiamo la loro pregnante assenza.

Ciò che conta è aver coscienza di essere in crisi e l'intenzione di superarla, capendola, non rifiutando la logica della dialettica scontro-incontro, della critica, del suggerimento perché si abbisogna, per uscire da certe stereotipie, da certo «disagio della civiltà», per parafrasare Freud e la sua nota opera sociale, non certo di dogmatismi basati sul principio di autorità bensì sulla dialogica, sul dialogo per poter affrontare i preconcetti e pre-giudizi (giudicare prima, a priori) ed uscire dai gusci protettivi tipici dei gasteropodi. Donde l'invito non solo a riflettere ma a rifletterci.

Noi percepiamo il mutare continuo, il mondo dell'apparenza, del non-essere. Avvertiamo di esser esposti al pericolo di esser divorati dai meccanismi sociali, di perder coscienza di noi medesimi, di non riuscire a capire la logica socio-economica e dei suoi apparati. E sappiamo che con la fede che manca in ogni cosa, è in crisi lo stesso concetto di valore. Da qui l'exis urgente di riflettere, di definire e ri-definire i concetti per meglio addentrarci nel labirinto, perché di vero dedalo si tratta, sociale, per porre e por-ci dei punti cardine, chiarificando le idee per poi intraprendere o cercare d'intraprendere nuove strade, alternative, soluzioni valide.

Non un isolamento claustrale dal mondo, dalla concretezza di ciò che agisce in e su di noi ma trovare nel contempo uno spazio per riflettere e dubitare nel senso di mettere il mondo tra parentesi, sospendere il giudizio, epochizzarlo. Tale bisogno di innalzarci dalla vita quotidiana non significa allontanarci da essa perché sarebbe una pia illusione il disertarla, semmai l'esigenza del dubitare per riflettere e per chiarirci. È un'operazione indispensabile ma non intesa cronologicamente bensì del tipo che avviene contemporaneamente come si legge un libro e si riflette immediatamente sul suo contenuto…

Il lettore non sospende la lettura del libro mentre riflette, ad es.

Ora, nel nostro caso, non leggiamo un libro ma il libro della nostra vita, della coscienza riflessa e di quella più insondabile donde come è inutile gettar giù le fondamenta di una casa, senza poi aver pensato sotto ogni profilo a tale nuova casa come dovrà risorgere, visto che le intemperie non ci risparmiano, è bene non fermarci al dubbio per il dubbio.

Se dubitare è lezione di vita, d'apprendimento, il continuo dubitare senza giungere a nulla è estremamente dannoso. Impariamo invece a dubitare, riflettendo, in quanto credo sia motivo principe per apprendere l'essenzialità o quanto meno purificarci da quanto ci è stato fornito da istituzioni a priori e abbiamo preso per scontato, per buono e fatto nostro. Dubitiamo quindi ma non fermiamoci all'epoché per non cadere nello scetticismo in sé e per sé.

 

Enrico Marco Cipollini


 
 
 
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