John David Barrow (Londra, 29 novembre 1952) in questo suo Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima (traduzione di Tullio Cannello, Adelphi, 1992) intraprende una disamina di quelle particolari dottrine cosmologiche, diffuse nel mondo della scienza contemporanea (ma non solo), che vanno sotto il nome di «teorie del tutto» e che costituiscono «una chiave capace di guidarci al segreto matematico che sta al cuore dell’universo». In definitiva, si tratta di principi generali destinati «a unificare tutte le leggi di natura in un solo enunciato che riveli l’inevitabilità di tutto ciò che è stato, è e sarà nel mondo fisico». A giudizio di Barrow, teorie di questo tipo, sono certamente degli utili strumenti per la comprensione dell’universo ma non sono, altrettanto certamente, il centro nevralgico dell’interpretazione ultima e definitiva. Le «teorie del tutto», insomma, «possono risultare senz’altro necessarie per la comprensione dell’universo attorno a noi e dentro di noi, ma sono tutt’altro che sufficienti». Dalle «teorie del tutto», perciò, ci si può attendere una spiegazione particolarmente interessante dal punto di vista della storia della scienza ed anche per l’evoluzione complessiva del pensiero scientifico stesso, ma non ci si può attendere una compattezza di chiarificazione e specificazione: non ci si aspettare, in fondo, la piena comprensione della complessità. A più riprese Barrow, infatti, sottolinea che «da una teoria del tutto non ci si può aspettare tutto. Essa potrà fornire tutte le leggi di natura, ma questo fatto da solo non consentirà di spiegare o di dedurre ogni cosa che osserviamo nell’universo in base ai principi costitutivi della teoria stessa». Per cui «i fenomeni lineari semplici possono essere analizzati un elemento alla volta, perché in questo caso, il tutto non è altro che la somma delle parti, e possiamo capire qualcosa di un sistema anche senza capirlo tutto. Viceversa, sistemi non lineari caotici sono differenti: essi richiedono che si abbia una conoscenza del tutto per poterne comprendere le parti, il quanto il tutto è qualche cosa di più della semplice somma delle parti». In questo «tutto» c’è qualcosa che sfugge, c’è una breccia, una crepa, un’apertura, una fenditura. Per questo, le «teorie» che intendono illustrare il mondo basandosi e impostandosi appunto su tale «tutto», non sono omogenee, non sono pienamente esaustive, non dimostrano e dicono veramente «tutto». Ciò costituisce il limite dell’applicazione di tali sistemi di pensiero che, peraltro, per Barrow sono comunque importanti e fondamentali per la costruzione che la scienza fa di se stessa. Ma l’universo che tali programmi di ricerca tentano di descrivere è ben altra cosa. Barrow lo afferma a più riprese. «Questi esempi vogliono soltanto mostrare come l’universo possa essere sottile, e anche malizioso. Le leggi di natura non ci consentiranno di dedurre quanto ci resta da vedere nell’universo. E neppure sappiamo dove porre la linea di demarcazione tra quegli aspetti dell’universo che sono attribuibili alla legge e quelli che escono dalle porte girevoli del caso». E - in sede di presentazione delle motivazioni che guidano, appunto, questo libro -: «nostro intento è di illustrare con la massima cura i diversi ingredienti di qualunque tentativo di comprendere scientificamente l’universo nel quale viviamo: vedremo che tali elementi costitutivi sono più vari e sfuggenti di quanto abbiano ingenuamente immaginato gli artefici di teorie del tutto».
Secondo l’intendimento di Barrow, dunque, ci si trova sempre di fronte a un universo «sottile», «malizioso», «vario» e «sfuggente»: un universo disobbediente e caotico, il regno del multiforme e dell’imprevedibile. Ed ecco che, poste a contatto con questo oggetto di ricerca, le «teorie del tutto» riescono si spiegare solo alcuni aspetti del soggetto che hanno davanti ma non riescono a rendere conto, appunto, di quel «tutto» che promettono. Perciò «il mondo è potenzialmente ed effettivamente intelligibile perché a qualche livello è in larga misura algoritmicamente comprimibile. Questa, in sostanza, è la ragione per cui la matematica può essere efficace come descrizione del mondo fisico: si tratta del linguaggio più conveniente che abbiamo trovato per esprimere quelle compressioni algoritmiche». Siamo così di fronte a un principio di «convenienza», di «utilità», di «efficacia»; noi ci serviamo di determinate teorie perché «funzionano» e non perché sono capaci di decifrare il mondo ed i suoi oggetti. Non siamo alla presenza (con le «teorie del tutto») di meccanismi assoluti e globali di risoluzione dell’ «enigma del mondo», ma soltanto di strumenti appropriati e vantaggiosi ai fini di una delucidazione che comunque resta sempre parziale e mai risolta. In questo senso, Barrow non dismette l’uso delle «teorie del tutto» ai fini della crescita della scienza ma ne circoscrive il raggio di applicazione e ne indica modalità, impiego e capacità nel panorama variegato e contrastante delle ultime acquisizioni teoriche relative alle teorie del caos e della meccanica quantistica. Il volume del cosmologo inglese, dunque, non si configura (come indicherebbe il suo titolo) come una disquisizione sullo specifico delle «teorie del tutto» - considerate nella loro evoluzione storica e nella loro valenza di risultati scientifici - ma piuttosto rende conto di un segnavia costituito da alt, divieti, assenze, perdite, faglie, orli e bordi che tali dottrine devono (oggi come oggi) quasi loro malgrado attraversare.
In fondo «questo libro è un tentativo di descrivere la sfida che davvero attende le teorie del tutto: individuare quegli aspetti della realtà che devono essere chiariti prima che possiamo avere una qualsiasi pretesa di comprenderla». L’oggetto della ricerca scientifica resta, comunque, per Barrow sempre indecifrabile e strano: compito di queste «teorie» è quello di sviscerare questa «oscurità» e «incomprensibilità». Il mondo rimane una faccenda che si può tentare di chiarire solo «a spizzico» (come affermava Karl Popper) e mai del tutto. E proprio le «teorie del tutto», tradendo il loro stesso nome, promettono la cosa più eminente senza mai riuscire a raggiungerla davvero. Dice Barrow: «la ricerca di una spiegazione ultima testimonia un’indubbia fiducia nella nostra capacità di comprendere il tessuto fondamentale della realtà. Ma ciò è davvero strano: le nostre menti sono prodotte dalle leggi di natura, eppure sono in grado di riflettere su di esse. Che caso fortuito che le nostre menti (o almeno quelle di alcuni di noi) siano pronte a sondare le profondità dei segreti della natura!». Da questo «caso fortuito» scaturisce una «fede». Infatti, afferma ancora Barrow: «la ricerca di un’unica teoria del tutto capace di abbracciare la totalità dei fenomeni si presenta come espressione suprema della fede profonda di alcuni scienziati nella compressibilità algoritmica della struttura fondamentale dell’universo». Da una parte, dunque, una realtà caotica e riluttante e dall’altra delle strutture, delle gabbie, delle reti di teorie che tentano di rendere conto di tale realtà. Al cuore di questo duplice movimento una «fiducia», una «fede», una «credenza»: che qualcosa possa essere ridotto a qualcos’altro attraverso un congegno astratto, un concetto, una forma. Risultato di questa «fiducia» sono le «teorie del tutto»: enormi espressioni di quella «convinzione» indiscriminata secondo cui «potremmo leggere il libro della natura in tutta la sua estensione temporale, e intendere ogni cosa che sia stata, che è e che sarà». Da un fatto irrazionale, insomma, ad un sogno planetario e onniavvolgente. Dalla «fede» al «sogno»: le «teorie del tutto» identificano, nella storia del pensiero, uno spazio che appartiene al desiderio piuttosto che alla concreta realizzazione di questo. Un luogo della speranza, del vagheggiamento e dell’ideale piuttosto che del contingente e del possibile (in quanto effettivamente reso materiale). Questo «desiderio» è proprio dell’uomo e della sua aspettazione di qualcosa di irrevocabile e decisivo. Ma rimane pur sempre un «aspirazione» mai completamente esaudita e avverata. Una fantasia che permetterebbe di racchiudere la somma della realtà dentro un unico concetto: le cose stanno così e non possono essere altrimenti! Non solo l’apogeo della semplicità e della schematizzazione ma, anche, la negazione di ogni dialogo e di ogni contraddizione.
In qualche modo ci si troverebbe ad avere a che fare con il «principio di identità» esteso a tutto il creato e ad ogni istante del tempo. La pietrificazione della Gorgone che si produrrebbe sul mondo, sugli uomini e sulle loro speranze, angosce, delusioni e gioie. Ma anche, dall’altro lato, la fine del misero e dell’ambiguità, dell’errore e dell’ignoranza. Il regno della luce. Il paradiso della trasparenza e della comprensibilità. Il trionfo dell’intelligenza sulle forze scomposte e irregolari della natura. La dimostrazione del fatto che la mente umana può non solo sapere tutto ma anche saper fare tutto: in questo senso le «teorie del tutto» dovrebbero riuscire, prima o poi, a vincere la loro «sfida» anche se la strada è tutta in salita e il traguardo non è ancora prevedibile e nemmeno esattamente configurabile per la scienza dei nostri giorni. La «sfida», sembra dire Barrow, continua. La strada è tutta ancora da fare!
Gianfranco Cordì