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Gianfranco Cordì. Hillman: una psicologia nuova o vecchia?
01 Agosto 2011
 

James Hillman (Atlantic City, 1926), psicoanalista, saggista e filosofo, in questo suo Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino (traduzione di Adriana Bottini, Adelphi, 20094) propone una psicologia del fantastico, dell’immaginifico, del romanzesco. In definitiva egli apre la propria disciplina allle dimensioni del sogno e della creatività. Ma nello stesso tempo, dopo aver fatto delle concessioni all’irreale e al fantomatico, sposta la propria attenzione sul pre-originario, sull’assoluto iniziale, sulla scaturigine cosmica. Ecco perché non può che rifarsi, in questi passaggi, totalmente al mito (che è narrazione fantasmagorica e sacra di avvenimenti relativi all’origine dell’universo, di gesta, di fondazioni culturali, di imprese e origini di dei ed eroi) e non può che teorizzare un principio,un archè, un momento fondante da cui ogni cosa – all’interno del nostro comportamento di uomini – ha avuto inizio. Le direttrici fondamentali della ricerca di James Hillman sono dunque due: quella narrativa e quella cosmologica. La psicologia da lui proposta è quella della descrizione più che dell’individuazione di cause e conseguenze. Le immagini che egli tratteggia si rivolgono a una circostanza, a una situazione, a uno stato. E questo stato si prospetta come un organizzazione di elementi in vista di un fine. Tra natura e cultura esiste un terzo fattore: quello mitico, dal quale scaturisce la nostra personalità. Dice Hillmann: «voglio che la psicologia ponga le sue basi nell’immaginazione delle persone, anziché farle oggetto di calcoli statistici e di classificazioni diagnostiche». L’anima dell’uomo, l’anima che da il titolo a questo libro, è dunque individuata prima di tutto attraverso l’aspetto di «un pensiero indagatore, un sentimento aperto al sacro, un’intuizione evocativa e un’immaginazione ardita». Tutti questi sono elementi di quella forma di narrazione che precede l’avvento del pensiero razionale, che ricerca le scaturigini, che investiga i moventi e che trae concetti generali da una serie di particolarità individuali. Ecco perché questa psicologia descrittiva e pre-originaria diventa fin da subito una scienza di tipo estetico. Non a caso Hillman stesso scrive: «questo libro, dunque, vuole coniugare la psicologia con la bellezza». Ed in un altro luogo del proprio libro aggiunge: «la parola chiave per le biografie non è tanto “crescita” quanto forma, e che lo sviluppo ha senso soltanto in quanto svela un’aspetto dell’immagine originaria». Siamo di fronti a qualcosa che predispone, costituisce, prepara, preordina, istituisce e, naturalmente, forma. Qualcosa di precedente alla considerazione razionale delle cose. Qualcosa che è appunto una «forma»: la psicologia pre-originaria ed estetica diventa adesso anche cosmica. Da questo universalismo di partenza (la presenza di «qualcosa» in noi che sfugge a natura e cultura) siamo giunti alla esatta caratterizzazione dell’essere umano. Che è sempre, in se stesso, irripetibile, particolare, singolare e originale. Siamo passati ciò dall’universalismo alla singolarità: e questo è possibile solo perché ogni individuo è un tutto, qualcosa di globale. Questa globalità deriva ad ogni persona da quella «forma» che abbiamo visto esser presente in lui. E’ come se Hillmann realizzasse il passaggio dalla considerazione cosmologica (propria dei primi Presocratici, sofisti esclusi) a quella morale: la considerazione dell’uomo in quanto problema (preannunciata dai sofisti e realizzata da Socrate). Tra il cervello e l’ambiente è presente questa specie di sfera morale ontologica che determina la personalità di ogni essere umano. L’uomo nasce con un senso già dato; parafrasando un celebre titolo di Herbert Marcuse, siamo di fronte all’ Uomo a una direzione; ogni essere umano nasce con la sua stella; le creature sono eterodirette. Non a caso, per definire questa «stella», Hillman utilizza il termine di «ghianda» che, poi, dice essere equivalente a «immagine, daimon, vocazione, angelo, cuore… anima, modello, carattere». Lo studioso statunitense afferma ancora: «ciascuna vita è formata dalla propria immagine, unica e irripetibile, un’immagine che è l’essenza di quella vita e che la chiama a un destino. In quanto forza del fato, l’immagine ci fa da nostro genio personale, da compagno e da guida memore della nostra vocazione». La considerazione estetica, che diventa ontologico-morale, porta adesso alla rappresentazione di un uomo già definito come un tutto, già dato, già fatto. Proprio come una ghianda che contiene, tutta insieme, in se l’idea della quercia. «La psicologia scientifica taglia il regno delle cause in due parti soltanto, natura e cultura. Ed elimina per definizione la possibilità di un qualcos’altro». Ora «dal momento che le scienze comportamentali, compresa la biologia molecolare e la psichiatria farmacologia, situano tutte le ragioni del nostro carattere in quelle due categorie, e dal momento che noi ci stiamo immaginando una terza forza nella nostra vita; questo tertium non può che manifestarsi nascosto dentro gli altri due». Qualcosa di «nascosto», che non è ne natura e ne cultura, e che «qualcosa di individuale e di unico, specifico di quella particolare persona». Questa «ghianda» in fondo è «l’idea… che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta». Da ciò discende subito una caratterizzazione della diversità come principio costitutivo degli esseri umani. Una diversità che, però subito costituisce ora l’uguaglianza che, a sua volta, forma la libertà. Nelle parole di Hillman: «ciascuno è per definizione distinto da ogni altro ciascuno e di conseguenza, in quanto tale. È uguale a ogni altro ciascuno». «È il fatto della vocazione che ci rende uguali ed è l’atto della vocazione che esige che si sia liberi». In sostanza: «la democrazia, dunque, poggia su una ghianda». Da una diversità di partenza a una piena libertà pur restando sempre nell’orizzonte del pre-determinato e del già deciso. L’uomo descritto da Hillman è perciò un uomo totale, completamente presente a se stesso dal suo primo vagito, del tutto coerente con la propria «vocazione», interprete fedele del proprio «destino», strutturato interamente già prima delle sue manifestazioni razionali, sentimentali, comportamentali e cognitive. «Quando guardiamo una faccia di fronte a noi, o una scena fuori dalla finestra o un quadro alla parete, noi vediamo un tutto, una Gestalt. Tutte le parti si presentano simultaneamente». È questo il pensiero che Hillman vuole fare trasparire e trapelare. È questa la strada –illustrata attraverso un cospicuo numero di esempi recuperati da biografie di «figure di spicco» (nella consapevolezza che «tutte le vite hanno una componente eccezionale, che non viene spiegata dalle teorie psicologiche e biografiche correnti»)– che Hillman intende percorrere in questo libro.

Un libro che presenta forse una fanta-psicologia o una analisi mitica dei mortali ma che ha il pregio, in ogni caso, di presentarsi come felicemente oltre, al di la, trans, più in avanti. Aperto vero uno spazio ancora tutto da esplorare o, forse piuttosto (del resto), già esplorato da moltissimo tempo.

 

Gianfranco Cordì


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