In questi giorni vari esponenti del governo hanno rilasciato una moltitudine di dichiarazioni tra loro contraddittorie: prepensionamento dei dipendenti pubblici, liberalizzare la vendita dei farmaci, abolire le tariffe minime dei professionisti, aumentare le licenze dei taxi, abbonire il privilegio delle banche; alla fine e arrivato un decreto delle liberalizzazione, benissimo.
Si poteva fare meglio non si capisce perché introdurre nuovi obblighi alle imprese, come l'allegato clienti fornitori che si tradurrà con una nuova spesa per nuovi programmi.
Quante volte del resto abbiamo desiderato uno Stato diverso da quello esistente... quante volte abbiamo puntato il dito contro le mille magagne e i mille disservizi della pachidermica macchina pubblica... quante volte abbiamo sentito la classe politica e le sue beghe come distante dalle nostre esigenze e dalle nostre aspettative.
Lo Stato – a dire il vero – non ci ha mai entusiasmato. Siamo sempre stati molto riluttanti a riconoscerne la sacralità e la supremazia sulle nostre vite.
Fin da bambini, certo, hanno provato a convincerci che lo Stato è necessario. Necessario al nostro benessere, alla convivenza civile ed alla nostra stessa sopravvivenza. Ci hanno parlato del Risorgimento e della Resistenza, della “costituzione democratica e antifascista” e delle “magnifiche sorti e progressive” che la macchina pubblica ci riserva.
I politici, gli intellettuali, i cortigiani del Palazzo hanno da sempre cercato di giustificare con altisonante retorica le pretese dei governanti di controllare i nostri comportamenti privati e di depredare il nostro portafogli. Le prerogative che lo Stato rivendica sarebbero, in altre parole, legittime in quanto primariamente orientate al “nostro bene”.
Ultimamente peraltro i politici cominciano ad ammettere che in fondo e in fondo lo Stato non è tutto rose e fiori... che in fondo non sta andando tutto così bene... si lasciano sfuggire che il sistema pensionistico così com’è non regge... che la legislazione del lavoro che abbiamo adesso è insostenibile... Questo avviene perché la classe politica e burocratica ha compreso che gli umori degli elettori stanno cambiando e che è sempre più difficile convincere i contribuenti della bontà dello Stato così come lo conosciamo attualmente. In altre parole se “questo” Stato comincia ad essere un po’ screditato, allora basta prospettare alla gente che “questo” Stato diventi un “altro” Stato ed il gioco è fatto. Così ci viene detto che la situazione è ancora sotto controllo. Che lo Stato ha in sé tutti gli strumenti per riportarsi sul sentiero giusto. Uno Stato “può essere riformato”... attraverso la democrazia... attraverso i partiti... attraverso la politica.
La parola “riforme” è una delle più ricorrenti sulla bocca dei politici per lo meno dall’inizio degli anni ’90. “La stagione delle riforme è cominciata” – quante volte ci siamo sentiti ripetere questa affermazione! Riforma della istituzioni. Riforma del mercato del lavoro. Riforma del fisco. Riforma della scuola. Riforma della sanità. Riforma delle pensioni.
Alcune di queste riforme sono finora rimaste solamente degli slogan, buoni per un volantino elettorale o per una tavola rotonda. Altre i politici ci dicono di averle fatte ma francamente ci sembra che per noi non sia cambiato assolutamente nulla.
Le tasse non sono diminuite. Lo Stato mantiene un potere pressoché totale su tantissimi sfere dell’attività umana e continua a controllare in modo asfissiante le nostre vite “dalla culla alla tomba”. I risultati sono evidenti agli occhi di tutti.
Naturalmente i politici hanno sempre pronta una giustificazione sul perché le cose non sono andate come avevano promesso. Una volte è colpa della congiuntura economica sfavorevole; un’altra volta invece della necessità di rispettare i parametri per “entrare in Europa”; una volta del lievitare del prezzo del petrolio causato dalla crisi medio-orientale. E quindi ci esortano ad avere pazienza – ad accettare sacrifici “in questo periodo di crisi”. La pazienza dei popoli, tuttavia, troppe volte si è rivelata la mangiatoia dei tiranni.
Giuseppe Quarto
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