Assistere a uno spettacolo teatrale attraverso un film, piuttosto che a teatro, comporta un limite, ma talvolta anche un vantaggio. Il limite, evidente, è che in un film manca la presenza fisica degli attori, che dà alla rappresentazione teatrale il suo specifico fascino. D’altra parte la macchina da presa può mostrarci, insieme alla rappresentazione teatrale, le reazioni del pubblico. E a volte l’interazione tra la scena e gli spettatori dà vita a un racconto più interessante di quello che si sviluppa soltanto sulla scena.
È su questa scommessa che si basa a mio parere Venere nera, l’ultimo film del regista francese Abdellatif Kechiche, già autore fra l’altro di un film di notevole successo, premiato al festival di Venezia, intitolato Cous cous.
Lo spettacolo teatrale di cui racconta il film è decisamente abietto. Una giovane donna nera, sudafricana, dalla corporatura tozza e opulenta, viene mostrata al pubblico all’interno di una gabbia; viene fatta uscire agli ordini di un domatore, come una belva pericolosa; a colpi di frusta, viene costretta ad atti di sottomissione; e per finire gli spettatori sono invitati a toccare le sue natiche monumentali.
Questo spettacolo si è tenuto davvero, nell’Ottocento, in Inghilterra e poi in Francia, nei locali più popolari come nei circoli aristocratici. La protagonista si chiamava Saartij Baartman. E i resti del suo corpo, smembrato e conservato in barattoli dagli anatomisti francesi, sono stati restituiti al Sudafrica soltanto nel 2002, su richiesta di Nelson Mandela.
Dicevo dell’interazione tra lo spettacolo e gli spettatori. Da questo punto di vista, le descrizioni che fornisce il film di Kechiche sono molto sottili, di alta qualità artistica. Ci danno la sensazione di trovarci anche noi tra quelle losche platee.
Nel comportamento e già negli sguardi del pubblico popolare inglese si colgono, insieme all’irrisione nei confronti della donna nera, delle emozioni che smentiscono qualunque pretesa di appartenere a una civiltà superiore: un aperto compiacimento sadico di fronte alle gesta del domatore; e, al momento di toccare il corpo della donna, una frenesia incontrollabile, che fa intuire che lo spettacolo serve anche come sfogo di una sessualità repressa.
La descrizione è sottile, ma il senso è netto: se un selvaggio c’è, è il pubblico; mentre la protagonista, nella sua dolorosa sopportazione, risulta tanto più consapevole e, almeno interiormente, padrona di sé, dei suoi spettatori.
Per gli aristocratici parigini, lo spettacolo della cosiddetta “Venere ottentotta”, è un pimento per ravvivare i sensi spossati dalle consuetudini libertine e orgiastiche. Stavolta, insomma, sono spettatori disinibiti e raffinati, disposti anche a commuoversi, quando la ragazza, nel corso della performance, scoppia inaspettatamente in lacrime. Ma, questo è il senso dell’episodio, ugualmente razzisti anche loro, perché accettano con disinvoltura, come una circostanza naturale, che una donna nera sia trattata come una belva.
Insomma: il tema del film è il razzismo, dei bianchi contro i neri, ma anche degli uomini contro le donne. E se un rimprovero può essergli mosso, è che si tratta di un razzismo patente, clamoroso, dal quale è fin troppo facile dissociarsi. Mentre si sa che il razzismo è un sentimento insidioso, che può insinuarsi anche in chi razzista proprio non si ritiene. Ma in effetti il film presenta un razzismo più sottile: è il caso dei difensori dei diritti umani, che, con le migliori intenzioni, presentano querela contro lo spettacolo. Ebbene, il film suggerisce il dubbio che non abbiano capito nulla. Che non abbiano capito cioè che la protagonista dello spettacolo non ne è la vittima, ma ne è forse, almeno inizialmente, l’ispiratrice. Avrebbero insomma colpevolmente sottovalutato la sua coscienza e la sua volontà.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 20 luglio 2011)