I cubani sono assetati di cambiamenti
La vita non è altrove, ma in un’altra Cuba
Sarah Moreno su El Nuevo Herald di sabato 16 luglio intervista Yoani Sánchez, la famosa blogger simbolo della voglia di cambiamento dei giovani cubani.
«Siamo assetati di cambiamento. Basta passeggiare per le strade dell’Avana per vedere nuovi negozietti, bancarelle che vendono frullati, e altri piccoli chioschi nati in gran numero nelle vie centrali. Gli abitanti di questa città vogliono trovare un minimo di benessere in mezzo alle colonne screpolate e ai balconi cadenti. Questa rinascita è molto fragile, perché i cubani non sono esperti su come amministrare un’impresa», ha detto la creatrice del blog Generación Y, in occasione dell’uscita nelle librerie di Miami del suo libro WordPress, Un blog para hablar al mundo (Editorial Anaya).
«Dietro le riforme economiche c’è la volontà governativa di rimpinguare le esangui casse di Stato. Concedere potere economico ai cittadini è stata una vera e propria necessità, più che una scelta politica. La popolazione guarda con scetticismo a questi cambiamenti, che vanno nella giusta direzione, ma sono lenti e superficiali. Le imposte sono eccessive e l’elenco delle attività consentite è limitato. Questi elementi chiariscono la volontà di un governo che non ha nessuna intenzione di far crescere la piccola iniziativa privata, né di favorire la nascita di una piccola e media impresa. In ogni caso dobbiamo approfittarne, perché grazie a un piccolo spiraglio, i cuentapropistas di oggi potranno diventare gli imprenditori di domani», ha detto la blogger.
Yoani ha preso come esempio il proprio caso per affermare che «l’autonomia economica diventa presto autonomia politica».
Yoani Sánchez si è laureata in filologia all’Università dell’Avana nel 2000 e per superare la frustrazione di un salario che non superava i 10 dollari al mese, si è messa a insegnare spagnolo ai turisti che visitavano l’isola. Yoani ha raggiunto l’indipendenza che nel 2007 le ha permesso di creare il blog Generación Y, attualmente visitato da 14 milioni di navigatori al mese e tradotto in 17 lingue. Nel 2009 ha scoperto che tramite Twitter si possono inviare SMS dal telefono mobile senza dover accedere a Internet.
«Twitter ha salvato la pelle in numerose occasioni ai blogger alternativi», ha riconosciuto Yoani che insegna dove può e come può questo sistema che consente di «avere Internet senza Internet».
«Il solo requisito necessario è che l’alunno abbia un telefono mobile e io sono in grado di fargli vedere come twittear in situazioni limite», ha affermato Sánchez, che nel volume Un blog para hablar al mundo rende partecipi i lettori delle sue esperienze, sia dal punto di vista giornalistico che tecnologico, utili per creare uno spazio Internet personale e pubblicarlo in rete. Il libro è uscito in Spagna a marzo, ma a Cuba si può leggere solo grazie a fotocopie illegali, perché è vietato.
Cuba è un paese a basso indice di connessione Internet, ma al tempo stesso Yoani Sánchez fa parte di un sempre più numeroso Movimento Blogger, che comprende il marito Reinaldo Escobar (ex giornalista di Juventud Rebelde), il fotografo Orlando Luis Pardo - autore delle immagini che illustrano il libro Un blog para hablar al mundo -, Claudia Cadelo, Miriam Celaya, Dimas Castellanos, Eugenio Leal, Rebeca Monzó, Regina Coyula e il pastore battista Mario Félix Lleonart.
«Siamo persone molto simili, ribelli per natura. Scriviamo i nostri blog senza cercare il consenso delle istituzioni e senza rispettare nessuna linea editoriale», ha precisato Sánchez, che ha cominciato a narrare al mondo la realtà cubana ispirata dal figlio Teo, che allora era un bambino.
«Nel 2003, un grande amico di famiglia [il dissidente Adolfo Fernández Saínz] venne incarcerato in seguito ai fatti incresciosi della Primavera Nera. Nostro figlio chiedeva il motivo e noi rispondevamo che era un uomo molto coraggioso. Fu la pronta risposta di Teo - che non ha peli sulla lingua - a farmi scattare la giusta reazione: Allora voi siete un po’ codardi, perché siete ancora liberi», ha raccontato la Sánchez.
Teo è un ragazzo di 16 anni che offre a sua madre la visione di una generazione che desidera viaggiare, conoscere il mondo ed esprimersi liberamente.
«Mio figlio è interessato ai manga giapponesi, parla fluidamente inglese, si sente parte di un villaggio globale. Passa davanti alla televisione, vede Fidel Castro, e mi domanda chi sia quel signore. Io mi sento felice perché la sua è una generazione più sana», ha detto la Sánchez, che non condivide le critiche ai giovani.
«Non sono apatici, e in ogni caso se dovessi scegliere tra apatici e fanatici preferisco i primi. L’adolescenza è un momento di indifferenza che apre la strada ad altre fasi della vita caratterizzate da maggior responsabilità. Per questo preferisco che siano così, piuttosto che crescano nel fondamentalismo, come è stato per la mia generazione e per quella dei miei padri, vittime di un tentativo di indottrinamento ideologico», ha detto la Sánchez, che si definisce «una democratica autodidatta».
«È stato un vero miracolo se sono diventata una persona tollerante, dopo aver ripetuto così tante parole d’ordine e dopo essere educata alla più sorpassata ortodossia marxista leninista», ha detto Sánchez, indicando il marito Reinaldo Escobar come «un maestro nella difficile arte della tolleranza».
«Reinaldo è un uomo denigrato e stigmatizzato dal governo, ma è dotato di un grande cuore capace di accettare e di perdonare le persone», ha aggiunto Sánchez riferendosi a Escobar, che si dedica al giornalismo indipendente da 23 anni, dopo aver abbandonato l’inutile «giornalismo da vetrina» praticato nei mezzi di comunicazione ufficiali.
Sánchez ha conosciuto Escobar quando aveva soltanto 17 anni e frequentava il liceo. «Ero andata da lui per cercare un libro proibito di Mario Vargas Llosa», ha detto ricordando il primo incontro avvenuto nell’appartamento di 14 piani dove adesso risiedono.
«Si tratta di un palazzo in stile jugoslavo, che Reinaldo ha contribuito a costruire», ha aggiunto Sánchez, precisando che anche se la polizia ha cercato di seminare zizzania contro di loro, non ha ottenuto la collaborazione dei vicini.
Le menzogne che il governo ha diffuso contro di lei, le pressioni esercitate su familiari e amici e l’amaro ricordo degli interrogatori - il primo è avvenuto il 7 dicembre 2008, presso la stazione di polizia situata tra 21 y C nel quartiere Vedado - sono una parte della sua vita sulla quale preferisce non soffermarsi.
«In un regime totalitario, l’allegria è profondamente contestataria, per questo mi piace parlare delle cose positive che mi accadono: della soddisfazione che provo quando insegno, dei nuovi strumenti tecnologici che sono diventati un megafono, del sostegno che mi dà la gente per strada, quando nei posti meno immaginabili mi dice: resisti», ha detto.
I numerosi premi ricevuti - “Ortega y Gasset” assegnato dal quotidiano spagnolo El País, dove scrive una rubrica a cadenza quindicinale, o il “Maria Moors Cabot” della Columbia University di Nueva York - sono la spinta migliore per continuare a fare giornalismo serio, vicino alle necessità del paese.
«Se potessi aiutare a fondare un organo di stampa libero nel mio paese, lo farei molto volentieri. Credo di conoscere le persone giuste da impiegare come collaboratori. Stiamo facendo passi importanti in questa direzione», ha aggiunto.
«Non riesco immaginare i motivi per cui il governo non mi ha permesso di uscire dal paese per ritirare i premi. Non posso calarmi in una mentalità autoritaria. Il governo cubano in un primo momento non ha dato la giusta importanza al fenomeno della blogosfera alternativa e ha ritenuto che il divieto di viaggiare bastasse a far cadere le aspettative internazionali sul mio lavoro. Non mi lasciano uscire anche perché sanno che voglio tornare. Credono di avere partita vinta tenendomi relegata a Cuba, ma non è vero. Qui ho la materia prima che mi serve per scrivere e posso insegnare ad altri come esprimere il proprio pensiero. Sono nella mia realtà. Vivo a Cuba perché lo voglio, per una mia decisione personale», ha detto.
«Questa è un’isola segnata dall’angelo della poesia e della letteratura, un’isola allo stato embrionale nella quale ogni cosa può accadere. Non credo, come recita il titolo di un romanzo di Milan Kundera, che La vita è altrove. La vita non è in un altro luogo, ma in un’altra Cuba».
Nipote di un emigrante delle canarie, dal quale dice di aver ereditato «la tenacia», Sánchez è cresciuta in una famiglia umile, composta solo di figlie femmine. «Mia madre guidava tassì e mio padre era macchinista di treni. Mio padre mi ha trasmesso la passione per la meccanica. Da bambina smontavo orologi e vecchie radio. Più avanti riparavo frigoriferi, telefoni portatili e ogni tipo di apparecchio che portavano gli amici. Nel 2004, con pezzi molto vecchi ho costruito il mio primo computer, grazie al quale abbiamo cominciato a scrivere un periodico. Mi sento una missionaria tecnologica, perché sono curiosa delle nuove tecnologie e voglio che diventino popolari a Cuba. La mia casa è un tempio dedicato al cambiamento», ha detto.
«Il mio rifugio sono famiglia e amici. Purtroppo molti amici mi hanno abbandonata, per le mie scelte di libertà, ma ne ho trovati di nuovi. Resta il mio mondo interiore, un luogo al quale non ha accesso la polizia politica, dove non mi possono proibire né confiscare niente, dove ho il mio spazio di libertà», ha concluso.
Gordiano Lupi