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Le Antesterie in Aristofane: alcune osservazioni sulle “Rane” e sugli “Uccelli” 
di Francesco Ghilotti
16 Luglio 2011
 

In questa sede si tenta di sciogliere il significato di alcuni enigmatici passi di Aristofane affrontandoli da una prospettiva “rituale”: messo in luce il sostrato cultuale a cui Aristofane si stava verosimilmente riferendo, e avendo ridato vita ad alcune immagini per molto tempo incomprese del poeta, si faranno notare le importanti implicazioni di tali letture nella conoscenza dello stesso fenomeno religioso, in un circolo che si spera essere virtuoso.

Il contributo aristofanesco alla conoscenza delle caratteristiche ctonie del culto dionisiaco viene generalmente limitato alla sola fondamentale testimonianza delle Rane: di non minore importanza si ritiene tuttavia essere un breve passo, rimasto fino ad ora pressoché inosservato, degli Uccelli. Le due diverse attestazioni del comico risultano vicendevolmente integrarsi, fornendo uno strumento estremamente interessante per l’interpretazione di due complesse realtà cultuali ateniesi: le Antesterie e i Piccoli Misteri di Agra.

Riguardo alle Ranemolto (ma non tutto) è stato detto: importanti studi hanno mostrato come, a sostenere la burlesca rappresentazione del tragitto infero di Dioniso (e a donargli comicamente senso), stesse una concreta realtà religiosa, misterica ed iniziatica. Varie e diffuse erano le tradizioni che prevedevano kathodoidi Dioniso (ucciso, alla ricerca della madre), diversi i misteri (di Lerna, delfici) che si appoggiavano a tale dogma – ora inteso in senso ciclico – ritualmente imitandolo. D’altronde riferimenti ai misteri sono espliciti nella commedia (basti pensare al coro di iniziati), ed è stato ipotizzato che le sofferenze inferte al dio altro non fossero che realistiche prove iniziatiche, in una sovrapposizione tra la figura divina e quella dei bakchoitanto tipica della religiosità dionisiaca. Questa idea si crede potesse essere ironicamente rappresentata, nella commedia, con il continuo scambio di vesti e di ruolo (vv. 494-673) tra Dioniso e il servitore Santia: il mystosdiventa dio, il dio mystos, entrambi uniti nelle “iniziatiche” frustate (vv. 618-672). Significativo, in tal senso, appare pure che Dioniso, dopo essere disceso nell’Ade, voglia riportare in superficie, in una vera e propria anodosdal sapore quanto mai rituale, proprio l’iniziato Eschilo, che prende originalmente il posto di una figura analoga, l’iniziata per eccellenza Semele (Thyone).

Di notevole importanza il punto d’accesso per l’Ade scelto dal Dioniso aristofanesco (su consiglio di Eracle – nel santuario di Kynosarges, vicino al tempio di Dioniso? – qui nel ruolo del Prosimno/Polimno argolico): una palude «immensa e senza fondo» (v. 137). Dioniso, come si sa, scese (vivo o morto a seconda delle versioni e della loro altezza cronologica) in una palude senz’altro non grande ma altrettanto profonda, la palude Alcionia, dalla quale gli argivi ritualmente lo evocavano in forma di toro con squilli di tromba (Plu., Is. Os., 35).

Aristofane, tuttavia, non si sta, con tutta probabilità, riferendo direttamente al complesso rituale argivo, ma a rituali analoghi più prossimi alla realtà ateniese. Una palude, certo più modesta di quella di Lerna, esisteva (o era esistita) probabilmente nei pressi dell’importantissimo tempio ateniese di Dioniso (appunto) en Limnais. In quel tempio, significativamente accostato ad altri monumenti legati al contesto ctonio (santuario di Ge, di Neleo, di Agra) si svolgevano annualmente gli Anthesteria, feste dedicate al vino e ai morti.

Questa idea è fortemente corroborata da un importante passo della commedia. Cantano le rane, «nere abitanti», per usare un’immagine di Giovenale (II, 150), «della palude Stigia», al passaggio del dio e dell’infero traghettatore:

 

Palustri figlie delle fonti

l’armoniosa voce degli inni leviamo

delizioso il canto della

mia ode – koax koax

che in onore di Dioniso

Nisèo figlio di Zeus sempre

facciamo a Limne risuonare

quando ebbra la folla

delle genti alla Festa

delle pentole attraverso

il mio sacrario avanza

 

Aristophanes, Ranae, 211-219.

 

Il poeta afferma chiaramente che durante i Chytroi (ultima parte degli Anthesteria, dedicata ad Ermes e forse Dioniso ctonio) le stesse rane cantano inni a Dioniso, verisimilmente nella stessa situazione di passaggio: «ciò ha indotto qualcuno a credere che anche nel temenosdi Dioniso en limnais, tra l’Ilisso e l’Acropoli, ci fosse una via di accesso agli inferi, e che per di lì Dioniso scendesse in una catabasi mitica analoga a quella argiva».

L’idea del passaggioctoniodionisiaco, in sé coerente con quanto conosciamo della struttura della festa – durante il secondo giorno, Choes, i morti ritornavano, e nel terzo venivano riportati sottoterra – viene difesa da studiosi quali Gerard Van Hoorn, Maria Daraki e Margherita Guarducci: «la zona paludosa del Ilisso», commenta ad esempio quest’ultima, «era molto probabilmente la località in cui, secondo un’antica tradizione ateniese, Dioniso dio infero sarebbe emerso in origine e tornerebbe ad emergere ogni primavera». Sull’argomento torna, probabilmente da ultimo, Natale Spineto, particolarmente insistendo sui rapporti “fisici” intrattenuti dalla festa con gli inferi: proponendo una connessione tra Antestheria, Hydrophoria, e una «porta infernale» legata al tempio di Ge, riporta tra l’altro in luce un’interessante idea di Claude Calame – già accennata da Carolina Lanzani – su un possibile «doppio senso della parola χύτρα, che, usata in genere al femminile, indica la marmitta; al maschile plurale, certe cavità geologiche che costituiscono punti di passaggio per il mondo sotterraneo».

Importante in questo senso è anche un passo di Fanodemo, riportato da Ateneo (XI, 465 A), dove si utilizza, in riferimento al Dioniso delle Antesterie, il verbo anakalein –tecnicamente «evocare i morti»anche da Plutarco in riferimento all’evocazione a Lerna (Mor.364 E-365A).

Altro elemento fondamentale nella commedia è il forse non troppo parodico «inno a Iacco» (vv. 324-412), «divinità associata a Dioniso, oppure un nome mistico del dio stesso». Alla fine dell’inno, che contiene almeno due richiami peculiarmente dionisiaci – l’allusione al θίασος (v. 327) ed il termine τινάσσσων (v. 328) –, quella «sorta di sincretistica identificazione» diviene esplicita autoimmedesimazione (mantenuta dallo stesso scoliaste al v. 330) quando, a fronte delle reiterate richieste degli iniziati di essere accompagnati da «Iacco amante delle danze», Dioniso tra sé commenta: «Mi è sempre piaciuto far da accompagnatore / e sono pronto a danzare […]» (vv. 411-414).

Questa testimonianza se certo di per sé non può sciogliere la complessa querelleriguardante i rapporti tra Dioniso e Iacco, o tra Dioniso-Iacco e lo Iacco eleusino, rimane tuttavia, per la stessa ragione di essere stata formulata, e al di là quindi delle ragioni di tale formulazione, di enorme importanza, soprattutto se rapportate con quanto si farà emergere in seguito al riguardo delle possibili interferenze tra Antesterie e Piccoli Misteri eleusini.

Si riporta ora un’ultima testimonianza, enigmatica e pressoché priva di commenti, che inscena, proprio alla fine della commedia, un breve dialogo tra Plutone e Dioniso:

 

PL: «Venite dentro adesso, Dioniso».

DI: «Perché?»

PL: «Voglio offrirvi qualcosa prima della partenza».

DI: «Buona idea, per Zeus: non mi dispiace certo».

 

Aristophanes, Ranae, 1477-1481.

 

Questo passo è inserito in modo piuttosto brusco nella trama della commedia, senza visibili ragioni sceniche né risvolti pratici. Il poeta volle semplicemente affermare un concetto ben preciso e dal lampante significato d’incredibile importanza: Dioniso accetta il cibo offertogli da Plutone. Come è stato più volte messo in luce, mangiare qualcosa negli inferi comporta il restarne perennemente legato. Ade offre del cibo a Dioniso come lo aveva offerto a Core, e alla luce delle ampie allusioni ai misteri eleusini presenti in tutta la commedia, questo parallelismo non può essere casuale.

Si ritornerà sulle reali implicazioni di questo passo dopo avere commentato un’altra interessante testimonianza aristofanesca, tratta questa volta dagli Uccelli. Si è ritenuto utile citare tutto l’ampio pezzo in questione.

 

PROMETEO: «[…] Ma voglio dirti chiaro e tondo una cosa: verranno qui degli ambasciatori da parte di Zeus e dei Triballi del nord, per concludere un armistizio. Ma voi non accettate la tregua, se Zeus non restituisce lo scettro agli uccelli e non ti dà Basilia in moglie».

PISETERO: «chi è Basilia?»

PR: «una splendida ragazza. È lei che si mette in pentola il fulmine di Zeus e tutto il resto: il buon senso, il buongoverno,l’equilibrio,gli arsenali, l’ingiuria, il cassiere dell’erario, i triboli».

PI: «dunque gli amministra proprio tutto?»

PR: «Te l’ho detto, no? Se riesci a fartela dare da lui, ogni cosa diventa tua. È questa la ragione per cui sono venuto qui: volevo avvertirti. Da sempre voglio bene agli uomini»

PI: «lo dobbiamo a te, fra gli dèi, di arrostire la carne alla brace».

PR: «Gli dèi li odio tutti, lo sai bene».

PI: «Ma certo, per Zeus, fin dalla nascita c’è dell’odio tra voi: sei un vero Timone!»

PR: «ma adesso devo tornare, di corsa. Dammi l’ombrello: così, se anche Zeus mi vede da lassù, crederà che vado dietro a una canefora».

PI: «Tieni, allora prenditi anche questo sgabello».

CORO: «Presso gli Ombripodi c’è una palude dove senza lavarsi
Socrate aduna gli spiriti.
Lì venne Pisandro, invocando di vedere l’anima che
ancor vivo l’aveva abbandonato.
Per vittima portava un agnocammello: gli tagliò la gola
e si ritrasse, al pari di Odisseo. E di sotterra gli apparve
per sgusciarsi il cammello Cherofonte il pipistrello».

 

Aristophanes, Aves, 1531-1564.

 

La prima impressione che facilmente si prova leggendo il passo è la non inerenza dello stasimo con l’episodio generale. Anche presi singolarmente, inoltre, tanto in questo quanto nel dialogo tra il Titano e Pisetero rimangono preponderanti i punti oscuri.

In questa sede si tenterà di far emergere la coerenza e il senso di questa testimonianza, che in sé racchiude, si crede, due velate e simmetriche allusioni ad altrettanti aspetti rituali pertinenti agli Anthesteria. Rituali singolarmente già noti o ipotizzati, ma qui per la prima volta uniti in un unico senso complessivo, e quindi portatori di un significato più complesso.

Convincenti interpretazioni del senso globale dello stasimo non sono ancora state elaborate: solitamente, l’azione di Socrate di evocare le anime è messa in parallelo con la forza incantatrice delle sue parole (vengono riportati in proposito alcuni famosi passi platonici come Smp., c-e o Men., 79 a-b) . La questione è tuttavia più ampia. Stando ad primo livello di lettura, Aristofane descrive Socrate come evocatore di anime, giocando certo, oltre che con la sua evidentemente famosa capacità incantatoria, anche su due altri piani: in primissull’aspetto spettrale e consunto dei suoi discepoli (elemento su cui tanto insisteva già nelle giovanili Nuvole), di cui Cherofonte è assunto a modello. Socrate evoca quindi le anime dei morti perché incantatorio maestro di una scuola (il phrontisterio) di morti.

Il secondo piano è più complesso: il riferimento all’evocazione delle anime ben collima, ovviamente in senso sarcastico, con la centralità del concetto di anima nel rivoluzionario messaggio del Socrate platonico. La coincidenza di queste due fonti dagli opposti obbiettivi testimonia verosimilmente un elemento autenticamente socratico. Anche sul senso in cui Socrate concepiva l’anima Aristofane e Platone forniscono visioni solo in superficie contradditorie: nelle NuvoleSocrate è una sorta di pseudoiniziato – profanatore di misteri, nel Simposioplatonico, che riunisce fittiziamente in un solo banchetto Socrate e Aristofane, «accusatore antico» (per usare le parole dell’Apologia) ed accusato, Socrate è il vero iniziato ai misteri di Eros (mentre lo pseudo iniziato diventa Aristofane); il linguaggio del Socrate aristofanesco non è meno misterico di quello del platonico Socrate-Diotima. Elementi misterici, di ascendenza orfico-pitagorica, emergono prepotentemente dal Socrate platonico, sebbene sempre finalizzati e riattualizzati nel contesto della filosofia “delle Idee”. Appare dunque verisimile quantomeno un legame tra il Socrate storico e concezioni misteriche (legame probabilmente spregiudicato, alla base tanto del ritratto empio del comico, quanto di quello sublimato del filosofo).

Sulla base di questo appare più comprensibile l’ironia del poeta verso Socrate nello stasimo sopracitato: la strana scena altro non è che una parodia di un atto misterico – si ricorda che l’anno in cui furono rappresentati gli Uccelli(414 a.C.) è lo stesso di quello della più famosa profanazione dei misteri che sia passata alla storia, la mutilazione delle erme, di cui il cui primo accusato era proprio il socratico discepolo Alcibiade.

In linea con questa lettura un’affermazione di Prometeo, appena precedente al passo citato, alquanto dissacrante: «ma adesso devo tornare, di corsa. Dammi l’ombrello: così, se anche Zeus mi vede da lassù, crederà che vado dietro a una canefora» (vv. 1550-1552).

L’atto misterico da Socrate dissacrato è, ovviamente, ben preciso. L’evocare anime dalla palude rimanda, come la catabasi delle Rane, ai rituali di Lerna e a quelli ateniesi en Limnais, e questa idea è rafforzata dalla presenza nella commedia di numerosi quanto flebili rimandi al mondo dionisiaco: la vicenda mitica di Tereo, le allusioni alla danza sulla montagna (vv. 723 ss.) ed ai «tuoni sotterranei» (vv. 1747 ss.), la forte presenza della, tradizionalmente dionisiaca, Tracia, géographiqueo mythique, per usare un’immagine di Paul François Foucart e forse lo stesso, barbaro, dio Triballo.

Dunque, come i sacerdoti o gli iniziati dionisiaci evocavano il dio dalla palude, presso una palude lo pseudo-sacerdote o pseudo-iniziato Socrate evoca gli spiriti dei morti. Esaminando da questa prospettiva il passo, appaiono molto significativi i riferimenti alla discesadi Odisseo, all’anodosdel “pipistrello” Cherofonte, e al sacrificio.

Ora, se Aristofane si sta riferendo alle paludi vicino ad Agrai, quindi alle porte d’Atene, perché la localizzazione «Presso gli Ombripodi»? Che la localizzazione sia fittizia appare già dalla presenza di Socrate, risaputamente poco viaggiatore. La tipologia appare estremamente simile a quella utilizzata in un passo poco precedente a quello in questione:

 

C’è poi un paese, laggiù verso il buio,

deserto di luci,

dove gli uomini fanno festa assieme agli eroi,

tranne la sera.

Allora non è più sicuro incontrarli in quel luogo:

se di notte un mortale si imbatte in Oreste l’eroe,

resta nudo e le prende, su tutto il fianco di destra

 

Aristophanes, Aves, -1493.

 

Come fa notare Carlo Pascal, Aristofane in questo passo sta alludendo, ancora, al banchetto della cerimonia dei Choese dei Chytroi, che appunto venivano fatti risalire all’arrivo ad Atene dell’impuro Oreste.

Dunque questo passo, quello dello stasimo e quello tratto dalle Rane, se letti in sinossi, forniscono una testimonianza molto importante sul modusdi operare aristofanesco: stessa festa, gli Antestheria (esplicitamente nelle Rane, probabilmente in Uccelli1482-1493, ipoteticamente in Uccelli1552-1563), stessa localizzazione “fantastica” («presso gli Ombripodi», «laggiù verso il buio») o forzatamente non specificata (le paludi delle Rane): Aristofane sembra innanzitutto voler insistere sul fatto di affermare cose riguardanti posti favolosi e lontani. Le ragioni potrebbero essere le stesse per le quali non esistono fonti che (esplicitamente) parlino della catabasi di Dioniso presso Atene: ragioni, forse, d’interdizione religiosa.

L’esistenza di simili procedure per eludere le ben note interdizioni di quei fenomeni con caratteri (appunto) misterici, viene rafforzata da quanto messo in luce in un mio precedente lavoro, riguardante la presenza di una per certi aspetti similare tecnica platonica, consistente in una sottile allusione ai misteri eleusini (per mezzo soprattutto dell’Inno a Demetra) nel Simposio, banchetto che includeva tre persone (Fedro, Erissimaco, Alcibiade) coinvolte nella celebre mutilazione delle erme.

Sciolto il significato dello stasimo, è possibile analizzare i versi precedenti, costituiti dal dialogo tra Prometeo e Pisetero. Innanzitutto, assieme, a Pisetero, a Pascal e a sostanzialmente chiunque si sia occupato del passo «anche noi, a nostra volta, domanderemo: chi è Regina?». Aristofane non ci aiuta, definendola soltanto bellisima ragazza (καλλίστη κόρη) che governa tutte le cose, in primis il fulmine, di Zeus. Lo scoliaste antico del passo cita Eufronio, che la voleva figlia di Zeus. Una lettura tradizionale (seguita ad esempio da Dario Del Corno) del passo è quella che vuole la figura come Era, ma l’ipotesi non convince, per varie ragioni.

Una soluzione più efficace appare seguendo la stessa strada che ci ha permesso di interpretare il passo su Socrate: ancora una volta le Antesterie. Il matrimonio con Basilea richiama infatti facilmente, forse più allo spettatore antico che al moderno lettore, una cerimonia ben precisa: le nozze di Basilea e Dioniso, che si svolgevano durante i Choes. L’accostamento del tema del matrimonio a quello delle evocazioni, se a prima vista sembrava assolutamente incongruente, risulta razionale una volta decodificati singolarmente in chiave di ritualità dionisiaca. Un passo farebbe quindi da pendant all’altro in un sottile gioco di impliciti rimandi a realtà cultuali.

Variamente interpretato è stato, ovviamente, sia il significato del matrimonio rituale, sia il referente mitico (cfr. Contro Neera, 74), della stessa Regina (la moglie dell’Arconte Re). Ma se “Basilea”, si addice a varie divinità, è lecito pensare – come pensarono Eduard Gerhard e Carlo Pascal – che la Regina per eccellenza presso i Greci fosse, come recita un’importante laminetta, la «regina pura di quelli che abitano sotto la terra». Come Regina era spesso chiamata Persefone soprattuto in ambito orfico – e si tenga conto dell’importantissima parodia delle cosmogonie orfiche nella commedia: la cosiddetta ornitogonia dei vv. 685-702 – oltre che su almeno due iscrizioni. Persefone era verisimilmente la Βασίλη alla quale, secondo un’iscrizione del 418 a.C. trovata (significativamente) tra il tempio di Dioniso e l’Ilisso, era dedicato un tempietto, a cui pure si riferisce Platone nel Carmide (153a).

Tale ipotesi ha il merito di essere coerente, oltre che con il carattere funereo degli Anthesteria, con il passo degli Uccelli (si tenga conto la descrizione di Basilia come fanciulla (κόρη), e dell’affermazione di Prometeo «ogni cosa diventa tua»: Persefone è la dea della fecondità) e con lo scolio (Persefone è figlia di Zeus). In tal modo si spiega inoltre – e ciò non è di scarsa importanza – l’ironia di Aristofane, molto simile a quella dimostrata nelle Rane: come l’ingordo Dioniso accetta ingenuamente il cibo offerto da Ade, non meno ingenuamente Pisetero accetta in sposa Basilea. «In conclusione, Aristofane, dopo aver fatto trionfare quell’insigne gabbamondo di Pisetero, trova poi alla fine della commedia il modo di mandarlo garbatamente all’altro mondo» osserva Carlo Pascal.

Ora, l’elemento forse più interessante del passo aristofanesco è l’accostamento dei due riferimenti rituali, ciò che permette, forse non troppo audacemente, di ipotizzare che essi fossero uniti e tra loro coerenti anche nell’antica celebrazione ateniese: se nella stessa festa, dedicata ai morti, Dioniso veniva evocato dagli Inferi e sposava (di notte) la “rappresentanza” della Regina dei morti, non è inverosimile che di questi diventasse, forse solo per il periodo limitato della festa, re. Il matrimonio mistico degli Antesteria poteva dunque essere imitatio della (per usare un termine caro a Mircea Eliade) reale ierogamia infernale, che trova un plausibile corrispettivo nei rituali che si celebravano nel Ninfone sicionio (come il tempio en Limnais anch’esso nei pressi di una palude).

Un ulteriore elemento di congiunzione tra il matrimonio e l’evocazione è rappresentato dalla presenza delle quattordici gerarai preposte alla preparazione del rituale: tralasciando la suggestiva ipotesi che il loro numero derivi dalle parti in cui fu smembrato il corpo di Dioniso (e di Osiride), simili collegi femminili avevano altre volte l’incarico rituale di svegliare o richiamare il dio dagli inferi, come le sedici donne Elee o le Tiadi delfiche e ateniesi (le stesse gerarai?).

L’originario significato del rituale poteva essere legato tanto, “frazeranamente”, alla rigenerazione della natura (si pensi alla radice anthos nel nome stesso della festa), quanto, “eliadeamente” , al ritorno al caos che, nelle “società arcaiche”, caratterizzava la fine dell’anno (fornendo il presupposto del ristabilimento dell’ordine (cosmo) con l’inizio dell’anno nuovo), a seconda che si interpreti il dio come «divinité de la végétation renaissante» o come altro e straniero per eccellenza.

Frutto di tale misterica unione potrebbe essere il «sacro bimbo» al quale alluderà, secoli dopo, Ippolito (Haer., V, 8, 40): Pluto, la stessa rappresentazione dell’abbondanza a volte (dal IV secolo), non a caso, rappresentato con attributi dionisiaci. Questa ipotesi potrebbe trovare conferma e al contempo in parte motivare numerose iconografie, soprattutto attiche, riconducibili alla rappresentazione della coppia infera Dioniso-Core e a quella della figura ibrida, generalmente sempre in compagnia della regina degli inferi, Dioniso-Ade (di fusion parla Lewis Richard Farnell).

Maggiore consistenza assume allora l’ipotesi, cara a Margherita Guarducci, di una non disgiunzione tra le Antesterie e i Piccoli Misteri di Agra, che avevano luogo nelle vicinanze (sulle rive dell’Ilisso) e nello stesso periodo. Che, d’altronde, la laconica informazione di Stefano di Bisanzio su «azioni mimetiche riguardanti la storia di Dioniso» potesse riferirsi ad uno «hieros logos riguardante la catabasi di Dioniso, che proprio nelle immediate vicinanze aveva il suo santuario “nelle paludi”» è già stato, per diverse ragioni, ipotizzato.

Le attestazioni vascolari, raccolte e mirabilmente commentate nel classico Dioysos Chthonien di Henri Metzger che, nell’atene del IV secolo, associano a Core/Persefone, in contesti eleusini, Dioniso come paredro, potrebbero trovare in questo matrimonio, trait d’union dei misteri eleusini e dionisiaci – e ricordo che nello stesso periodo anche l’Assioco pseudoplatonico accosta la discesa dionisiaca ai misteri minori (XIII, 371 E) –, la loro origine.

Alla fine di questa breve trattazione appare più chiaro il motivo aristofanesco di far mangiare a Dioniso il cibo dell’Ade: proprio come Persefone, anche il dio è destinato a scendere ogni anno sotto terra. La comica catabasi si apre con un’allusione agli Anthesteria, e un’altra velata allusione chiude simmetricamente la commedia, in un andamento che vuole essere ciclico. Al dio che scende, si ricorda che già scese, al dio che sale, si ricorda che ancora scenderà.

 

 

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P. Zanker, La maschera di Socrate. L’immagine dell’intellettuale nell’arte antica (1995), trad. it. di F. de Angelis, Torino: Einaudi, 1997.


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