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Muore cubano di 23 anni nella carlinga di un aereo Iberia 
Un racconto di Gordiano Lupi
15 Luglio 2011
 

Adonis G.B. è morto nel suo ultimo disperato tentativo di fuga, come il protagonista di un mio vecchio racconto ispirato alla dura realtà. Il giovane cubano è stato ritrovato privo di vita quando mercoledì scorso il volo 6620 proveniente dall’Avana è atterrato all’aeroporto di Barajas. La Guardia Civile spagnola sta indagando, si farà pure un’autopsia, ma il caso pare chiaro, perché il giovane presenta ferite nel torace e alla testa ed è morto schiacciato dalla carlinga. La disperazione è la sola causa della morte di un giovane che ha tentato l’ultima carta della sua vita per sfuggire dall’inferno in cui era precipitato. Non è la prima volta che un cubano muore dopo una tragica fuga a bordo di un aereo, nascosto nella carlinga, in condizioni impossibili per sopravvivere. Si contano almeno cinque casi simili negli ultimi quindici anni.

Per commemorare Adonis ho rispolverato il mio vecchio racconto.

 

 

Di nuovo insieme

 

È proprio lui –, commentò la moglie.

Non è facile riconoscerlo, ma purtroppo è vero –, aggiunsero i figli.

Raul Garcia Gonzales era partito per il suo ultimo viaggio dall’aeroporto dell’Avana ed era arrivato così a Miami. Legato alla carlinga dell’aereo, mani e piedi. Legato come meglio aveva potuto, da solo, senza nessun aiuto. Adesso era su di un tavolo di marmo, disteso. Un ultimo disperato tentativo di fuga.

Raul amava la sua terra e non avrebbe voluto abbandonarla, però sua moglie e i figli erano fuggiti anni prima a bordo di zattere improvvisate. Lui non ce la faceva più a vivere da solo. Lo aveva fatto sin troppo.

Isabel accarezzò la fronte di Raul e quel tocco le fece rivivere tanti ricordi. Non era sempre stata difficile la vita a Cuba. Non come adesso, almeno.

Quindici anni fa si cominciavano a intuire tempi duri, ma nessuno avrebbe immaginato la fine delle illusioni rivoluzionarie.

I problemi non erano mai mancati. Si stava costruendo una società nuova, di uomini tutti uguali. Bastava credere e la fede faceva andare avanti. Raul era uno di quelli che ci credeva. Aveva lottato per la rivoluzione, quando era giovane. Fidel era una delle poche certezze della sua vita. Isabel invece non si era mai interessata di politica.

Da buona donna di casa si era sempre occupata d’altro.

Parlano, parlano, ma della povera gente non si interessa mai nessuno… – diceva.

Il marito la rimproverava: – Non dire così. Lo Stato siamo noi che abbiamo dato il nostro sangue per costruire questa repubblica.

Isabel taceva, per non contraddire il marito, però restava della sua opinione. I politici non la convincevano. Batista o Fidel era lo stesso. Tanto la povera gente non contava e non avrebbe mai contato.

Quando Fidel proclamò il periodo speciale, Raul non voleva credere a quel che stava succedendo. Inveiva contro la Russia e Gorbaciov.

Maledetti sovietici! Ci lasciano soli nelle mani degli americani…

Che ti dicevo? La povera gente deve arrangiarsi. Comunisti o capitalisti il risultato non cambia – ribatteva la moglie.

Furono tempi duri. Mancava tutto, persino il riso. Lo spietato embargo statunitense impediva il commercio e persino l’arrivo di medicinali. Fidel mise gli alimenti a razione. La tessera alimentare permetteva di comprare meno di quel che serviva per la sussistenza. Ci si arrangiava. Isabel ricordava sacrifici e sofferenze affrontate per far crescere i bambini. Si lavorava per pochi pesos che non servivano ad arrivare neppure a metà mese. Intanto Fidel apriva le porte al turismo. E fu davvero la fine. Chi veniva da fuori raccontava di un mondo diverso, di gente che viveva con il frutto della propria fatica.

Fu allora che Isabel cominciò a pensare alla fuga.

Andare via? E dove dovremmo andare? – domandava Raul.

A Miami. Dove vanno tutti. Ci sono più cubani che a Cuba. Cambierà qualcosa, prima o poi. E almeno non moriremo di fame. Potremo lavorare e guadagnare – rispondeva Isabel.

Io sono nato a Cuba. Qui voglio vivere e morire. Prendete pure le vostre zattere. Io vi aspetto qui, nella mia terra –, concludeva Raul.

Le difficoltà erano tante e aumentavano giorno dopo giorno, però lui non voleva saperne. Non se ne sarebbe mai andato.

Fu così che un bel giorno Isabel prese con sé i suoi due figli e s’imbarcò su di una zattera alla volta di Miami. Assieme ad altri disperati. Verso un futuro incerto, ma via dalla certezza di un difficile presente. Raul restò solo.

Fuggire non serve a niente, il capitalismo non è la soluzione, pensava.

Raul aveva ancora le foto di Fidel appese ai muri della sua povera casa. Accanto c’erano quelle di Che Guevara in divisa militare.

Abitava a Guanabacoa, nei pressi delle spiagge dell’est Avana, terra di riti magici e superstizioni. Un quartiere povero, fatto di vecchie case coloniali che cadevano a pezzi. Rifugio di miseria da spartire con orgoglio, ma anche di grida di bambini che giocavano a rincorrersi per campi incolti, tra palme e banani. Raul non voleva lasciare la sua terra. Non voleva tradire i ricordi della rivoluzione. Ricordava il treno deragliato a Santa Clara. C’era anche lui ed era appena un ragazzino. Rammentava gli occhi di ghiaccio di quell’argentino e le parole che sapeva pronunciare per infondere coraggio. Raul aveva ancora fiducia in Fidel. Le cose sarebbero cambiate e lui non sarebbe fuggito. Bastava attendere. Isabel non aveva avuto pazienza. Aveva due figli e tanto era bastato per spingerla a partire. Diceva che lo faceva per loro. Raul si era sentito tradito e le poche volte che riusciva a telefonare a Miami lo faceva capire.

Vieni anche tu – diceva la moglie – io ti voglio bene come un tempo.

Ma Raul non ne voleva sapere. Quella era la sua terra. A Miami avrebbe passato le giornate a rimpiangere vecchie strade, angoli di quartiere, bottiglierie dove trangugiava pessimo rum, feste all’angolo di strada e la musica a ogni ora del giorno. Al tramonto avrebbe immaginato il Malecón e un orizzonte inghiottito nelle luci soffuse della notte avanera. Non voleva i grattacieli sul mare di Miami. Non voleva imparare una lingua diversa dallo spagnolo. Il suo posto era a Cuba e non sarebbe partito. Era lui che attendeva moglie e figli.

Isabel asciugò una lacrima che le rigava il volto segnato dal dolore.

Perché non hai seguito le tue idee sino in fondo? Perché sei fuggito se non volevi? – mormorava, accarezzando la fronte gelida del marito.

L’ultimo viaggio, quello della disperazione, glielo aveva riportato così, come non lo avrebbe mai voluto vedere.

Lo spogliarono delle povere vesti sdrucite che indossava. Quel viaggio assurdo che poteva condurlo solo alla morte lo aveva conciato male. Isabel fece uscire i figli.

Lasciate fare a me – disse.

Quando i ragazzi si furono allontanati si mise al lavoro. Doveva renderlo presentabile per l’ultima cerimonia, vestendolo con un abito elegante, il più bello che avesse mai portato. Isabel pensò d’un tratto che il marito non sarebbe stato d’accordo. “Siamo povera gente” avrebbe detto “e allora indossiamo i vestiti della povera gente…”.

Lo avrebbe ricordato con i pantaloni chiari, un poco sdruciti, sporchi di polvere, la camicia sudata e sgualcita.

Prese i pantaloni e li piegò distrattamente. Adesso era il momento di gettarli nel sacco dell’ immondizia. Non sarebbero più serviti a nessuno. Prima però rivoltò la fodera delle tasche per vedere se dentro c’era qualcosa da conservare, magari un ricordo del marito. Fu così che trovò un foglio di carta ingiallita. Isabel lo lesse attentamente. Era una lettera indirizzata a lei, scritta in uno spagnolo semplice ma corretto. Una lingua che non aveva dimenticato, anche se a Miami era costretta a parlare quasi sempre inglese.

«Cara Isabel, vedi com’è strana la vita? Se leggerai queste parole vorrà dire che non ce l’avrò fatta e forse sarà stato meglio così, perché mi sarebbe costato troppo caro dirti che avevi ragione. Scriverlo è più facile. Le idee in cui credevo sono morte ed è giusto che me ne vada con loro. Abbi cura dei ragazzi. Sei sempre stata una buona madre».

Isabel strinse il foglio tra le mani. Aveva una gran voglia di piangere, ma Raul non avrebbe voluto che nessuno piangesse per lui. Testardo fino in fondo, aveva scelto il modo più assurdo per fuggire, perché in realtà cercava solo la morte. Isabel gettò via la lettera. Non ne avrebbe mai parlato a nessuno, neppure ai ragazzi. Lei e Raul erano di nuovo insieme, nonostante tutto. Dopo tanto tempo avevano ancora un segreto in comune e lo avrebbero conservato come un ricordo d’amore tra le pieghe della memoria.

 

(FINE)

 

Gordiano Lupi

 

(del racconto esiste anche una traduzione spagnola pubblicata su Otro Lunes)


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