Conosco l’autrice, le sue opere, la sua scrupolosità e per tal motivo mi è stato davvero difficile recensire tale suo lavoro «particolare». Sapevo della malattia del marito che Antonia Izzi Rufo ha vissuto con lui, confortandolo ed accudendolo, cosa che oggi è caduta in disuso in una società che ci vuole sempre «ad hoc», «in», dinamici, efficienti, giovani e belli e preferibilmente con denaro per spendere nei beni voluttuari, onde per cui l’esser malato è diventato colpa, un peso. Ma Ettore Rufo è stato l’unico uomo nella vita della nostra, lo ha amato, si è sentita non solo moglie ma consorte del suo compagno di vita, rispettandolo. Lealmente lo ha portato, accompagnato mano nella mano all’estrema dimora o al nulla eterno, come penso io ma ciò val poco in tal contesto. Forse Antonia vedrà il “suo”Ettore in un fiore, in una goccia d’acqua, in un arcobaleno… ma questo accadrà dopo, quando l’assenza si farà meno cruda. Ora Antonia è sola e vive tale mancanza irrimediabile e da qui scaturiscono liriche permeate di un dolore indicibile perché al dolore, chi scrive ne sa qualcosa, non si fa mai l’abitudine.
Il suo mondo non è più suo, scrive in una lirica della sezione “Poesie della fine, spietata”, che non possiamo sunteggiare come del resto le agghiaccianti liriche qui presenti ovvero si tratta di una lucida e partecipata analisi dell’esistere, dell’accadimento dell’inevitabile. Ciò che non doveva succedere, ormai è successo. E come in Proust ne “La fuggitiva” (Á la recherche du temps perdu) ogni oggetto, ogni momento, anche i più insignificanti, si caricano di tinte affettive e rimandano all’amato che non è più. Quando ciò accade in tale solitudine che lacera il suo più profondo intus, Ella non è più, ha perso la forza di combattere, di reagire: si sente smarrita ed indifesa, preda delle tempeste del mondo e del suo animo delicato e generoso. Si notano parole ricorrenti che danno senso e significato di tale tragedia: il grigio, le mani protese, il nulla, il pianto, la paura, la solitudine, la fine, la vita che non è più vita, il freddo della morte, il senso dell’angoscia e via dicendo… Stilemi che connotano tale libro che ti prende, t’afferra, ti sconvolge… sono le emozioni che prorompono dalle parole (il nostro linguaggio non denota e connota forse il nostro mondo, il nostro vissuto?) mai sguaiate ma contenute, pur nella morsa del dolore. Vedo, in una lirica, le mani di Antonia ed Ettore legate, strette, in simbiosi come in un amplesso mentre affrontano “assieme” il viaggio estremo perché chi muore trascina con sé il proprio mare magnum di progetti, di rimembranze e via dicendo, concepiti con l’altro. Tale è amore nella sua essenza più vera e pura, alta ovvero condividere la sorte l’un l’altra.
Le annotazioni di Mi manchi ripercorrono in schegge appuntite ed aguzze il journal intime di Antonia che dipana la sua esistenza con il consorte: dalla morte felpata che sta giungendo, in agguato… alla “cura” del marito: «che ne sarà di te, quando io non ci sarò più?». Che è anche la degna conclusione di tale libro dove spiccano ansie e tormenti ma anche quei ricordi indelebili di chi ha vissuto assieme una vita. C’è la scoperta del nulla, dell’angoscia, del vivere autentico e non banale in tale nostro esser-gettati-nel-mondo spesso opaco, che ignoriamo, che per statuto ontologico è diverso dalla coscienza di noi: quella separazione tanto criticata che fece J.P. Sartre nell’Essere e il Nulla per non tacere dei tanti accenni heideggeriani. Ma la nostra Scrittrice non si è certo prefissa di far filosofia in tali pagine: è il lutto, l’esistenza, l’esser transeunte dell’uomo che sempre si ripetono nel ciclo del mondo. In fondo Omero, il divino Omero, non aveva già detto ciò? Si pensi all’Odissea dove esplicitamente dice che gli dèi tramano contro gli uomini affinché tali possano cantare le loro sventure? O nell’ultimo e sublime canto dell’Iliade? Priamo ed Achille in una tenda si disperano sulla vita… Forse il trattato della vita in un sublime compendio che si chiude in un tragico pianto.
Vorrei concludere, chi scrive è un laico convinto, con una frase di Agostino d’Ippona:
«Non piangete la mia assenza, sentitemi vicino e parlatemi ancora».
Tale si può leggere in diversa ottica: il credente vi vedrà la luce di un’entita, chi non lo è il valore della memoria, del ricordo, dell’agire dell’uomo che lascia una traccia nei cuori gentili che lo rimembrano ma, de facto, la frase suddetta è più di un pungolo per chi sopravvive. Il libro, le cui liriche toccano alti vertici, in realtà si ferma a p. 62. Le pagine successive contengono una bibliografia di Ettore Rufo, un elogio funebre di Emilio Pacitti (l’Uno di Plotino ma ricordo che tale non è propriamente dio) e un’Osservazione (La morte non è niente) di Henry Scott Holland letta da Serenella Sestito, nella quale -chi scrive- rivede il pensiero d’Agostino succitato svolto in tono diverso. Segue un album di ricordi fotografici. Ciò è stato detto per correttezza del lettore che mal farebbe a non leggersi tale esperienza in versi e in prosa che Antonia Izzi Rufo è stata capace di donarci.
Enrico Marco Cipollini
Antonia Izzi Rufo
Mi manchi
ilmiolibro, Roma 2011, pagg. 86, € 17,50