A miriam per le sue mani che strizzano panni.
Fu una volta che il potere tentò di sedurre anche l’uomo di Nazareth, usando la forza di petti salubri e fortissimi, che si fletterebbero elastici in battaglia, sbaragliando gli animi esangui di tutti i nemici, con le mani nude.
Nel pugno teso del seduttore dai lunghi capelli di seta nera, la tensione si smorzò nelle nocche, che si distesero in dita molli, disegnando una carezza.
E la furia del potere si addolcì, in docili tocchi di membra, che scivolarono sul suo petto, fino all’ombelico tastando l’inguine bagnato.
Poi, si aprirono le mani, entrambe in volo come farfalle, per mostrare tutto quello che c’era intorno e negli occhi dell’uomo di Nazareth.
E si richiusero, formando una coppa o un sacco, ma capiente, da contenerci l’universo intero per quell’uomo solo.
Infine quelle dita da seduttore svettarono alte sulle guglie delle chiese, come segnali di comando: l’ordine dell’unico re al suo gregge, di fermarsi. Abbassare il capo e piegare il ginocchio.
Allora. L’attimo terribile dell’agonia, prima del respiro che varca la soglia, soffiò potente nello stomaco dell’uomo di Nazareth, e appesantì le sue gambe.
In quel luogo il potere lottava con l’assenza, davanti a tutti gli uomini, e prendeva a testimone il re dei cieli, che il seduttore combatteva.
L’uomo di Nazareth fu scosso da brividi disperati, contando tutte le sue assenze, tutti i buchi sul tessuto della veste.
Di lì passava una donna, ignara proprio del momento della lotta, e si recava alla fonte a lavare i panni.
L’uomo di Nazareth si dondolava nell’incertezza, desiderando tutto ciò che l’assenza gli sottraeva, nell’esercizio della lotta.
Entrambi, lui e il seduttore, rivolsero l’attenzione alle amorevoli cure che la donna prestava alle vesti di lino.
Le ceste di panni erano numerose, e la donna una lavandaia.
Il sole tramontò sul lavoro di braccia della donna, uno sforzo di muscoli e schiena sulla pietra grigia di acqua gelata.
La lotta sembrava sospesa tra loro, i pensieri stessi svaniti nel gioco di spruzzi e sapone schiumante.
Sebbene la donna non si risparmiasse per un istante nel lavoro di braccia sulle vesti, pure, le sue mani scheggiate diventavano esili e timorose quando le dita sfioravano una veste di lino bianchissimo.
A quella sola veste di lino bianco quella donna, ogni giorno, dedicava una cura amorevole, e lo avrebbe fatto, fino a imbiancare i capelli, timida e sfuggente, lavando il tessuto pulito.
Il seduttore lanciò uno sguardo d’intesa all’uomo di Nazareth, che gli sorrise.
Quelle erano le vesti dell’uomo che da sempre aveva scavato il suo nome nel cuore della lavandaia, suo marito.
E le dita della donna sapevano fare l’amore anche con la presenza di quell’umile veste, che profumava del suo uomo e del loro amore.
Loro lo capirono. Il seduttore riprese il combattimento, con le spalle alla donna, che continuava a sfregare il tessuto.
L’uomo di Nazareth si lasciò crollare nella sabbia, finalmente estenuato dalla lotta, con un’immagine sola negli occhi e nella carne.
Un muro giallo, da bambino, nell’ora d’estate quando si dorme, e un rettangolo di sole disegnato sui mattoni rossi.
Nella quieta presenza di tutto.
L’assenza allora scivolò in polvere nella sabbia, strisciando tra i suoi piedi e gli spruzzi d’acqua dolce della donna, il seduttore si fermò, gettando uno sguardo assente indietro.
C’era una paura terribile sospesa tra loro, la paura del potere.
Fu un lampo e il seduttore si insinuò nelle arterie delle sue paure, veloce come il sangue.
L’uomo di Nazareth sentì la malattia nel suo sangue, rapida e impalpabile, diffusa ovunque.
L’assenza riemergeva dalla paura del potere. Il potere era forte, lascivo.
Lui si guardava le mani, bianche, leggerissime, attraversate da sottili venature di assenze, perché era sempre stato troppo timido per trattenere qualcosa.
Sempre, fino a questo giorno di lotta, a quest’ora che lo vedeva perdere tutto.
Inginocchiato nella polvere, ora, si batteva i pugni contro le gote, forte, per sanguinare fuori il suo sangue freddo e appiccicoso.
Quella donna svelava la paura, nei suoi lini.
Lui aveva rinunciato da bambino ad occupare spazio con la sua ombra, ma ora quella paura gli sembrava una vigliaccheria.
Anche rinunciare a tutto gli sembrava un inganno. Lo aveva voluto.
Per paura? Sì! Aveva voluto inesorabilmente rinunciare alle assenze.
Rideva guardando le facce diverse vestite dal potere, che combatteva al fianco del seduttore.
Rise così forte anche delle sue paure, giocando con l’acqua saponata che gli bagnava i piedi.
Rialzando la testa la rivide, era di nuovo giorno, e il sole cuoceva la pelle della lavandaia, facendola fumare.
Di nuovo quel suo gesto, totale come un rito, dita di nebbia che asciugano la veste, portandola al petto e al seno, e di nuovo la sfiorano.
Sorrise, mentre il tempo si schiantava tra lui e quella donna.
Si rialzò sulle gambe, e pensò che non si sentiva né forte, né debole.
Ma le gambe le sentiva e anche l’aria, e il freddo dell’acqua.
Sorrise di nuovo e fece cenno al seduttore di avvicinarsi.
– Non mi tentare – gli disse delicatamente, mentre teneva con un gesto nervoso le mani dietro la schiena.
Dario de Giacomo