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Adriano Sofri. Caro Marco, sarebbe bello se tu, alle cinque della sera…
21 Giugno 2011
 

Caro Marco Pannella, non solo stai digiunando – con breve interruzione – da quasi due mesi, ma ora hai cominciato uno sciopero della sete. Nonostante questa enormità, pressoché nessuno nei mezzi di informazione mostra di accorgersene. Però, quasi nemmeno io – ne scrissi essenzialmente per confermarti la mia preoccupazione e il mio dissenso da imprese così estreme. Eppure, quanto al cuore della tua impresa, la condizione umana nelle nostre galere, io ne sono tormentato almeno quanto te. E allora? Allora proverò a dirti, con la franchezza e l’affetto che provo per te, e che si nutrono l’una dell’altro, che cosa suona singolare o senz’altro inaccettabile nella tua scelta.

Intanto, un intreccio irrisolto fra due propositi della tua lotta. Uno è di risollevare l’attenzione sulla questione dell’amnistia, restata sospesa al tempo della campagna demagogica e forcaiola contro l’indulto, di cui sarebbe stata l’ovvio e necessario complemento, e poi divenuta un tabù per l’universale (con poche eccezioni, per esempio Stefano Rodotà) ipocrisia di pubblici ufficiali e sottufficiali. Proposito nobile, fondato e ragionevole, di cui resta però da considerare la ragionevolezza del mezzo scelto per perseguirlo, l’oltranzismo di fame e sete.

L’altro proposito è quello di ottenere che l’Italia «torni a potere in qualche misura essere considerata una democrazia». Ora, anche ammesso che l’Italia non possa essere annoverata fra le democrazie (io penso di sì, non solo per l’imperfezione che alle democrazie è connaturata, e benché l’italiana sia peculiarmente insidiata dalla prepotenza e dal ridicolo), l’intento di ripristinare una misura democratica eccede inevitabilmente lo sciopero della fame e della sete di uno e anche di mille, a meno che da lotta per un fine si tramuti in protesta, che è ciò che tu neghi e allontani da te, e comunque non potrebbe praticare altro oltranzismo che quello della testimonianza.

Come darsi fuoco, più o meno: nobile atto, e magari imprevedibilmente foriero di conseguenze, ma estraneo alla tua consapevole e meditata nonviolenza. Dunque chi volesse riferire il fine del tuo sciopero dovrebbe più o meno dire che vuoi un’amnistia che ripristini una soglia minima di umanità carceraria e di normalità nella funzione della giustizia, e anche l’instaurazione di una democrazia, oggi - e da sempre - violata e negata dalla repubblica dei partiti.

È strano che tu non veda la sproporzione e l’incongruenza della cosa. E quando il benintenzionato cronista della tua iniziativa volesse approfondirne le motivazioni, si troverebbe davanti, come ieri, a un tuo scritto che dichiara che il tuo bersaglio è «l’associazione per delinquere (in termini giuridici e non morali) partitocratrica che continua con una capacità violenta immensamente aggravata rispetto a quella dei decenni del secolo precedente, fascista, nazista, comunista, militarista, fondamentalista», e si stropiccerebbe gli occhi – così sto facendo io. Una violenza immensamente aggravata rispetto a quella fascista, nazista, comunista, militarista, fondamentalista? Qui le parole ti hanno preso la mano, e mi chiedo se sia il rincaro delle parole a sospingere quello della tua lotta, o il desiderio di rincarare fino al limite estremo la tua lotta della fame e della sete a indurti a quell’azzardo di parole. Di cui trovo altri esempi, sui quali non occorre indugiare qui. Nei tuoi discorsi, che continuo ad ascoltare fraternamente, sento un’amarezza e una solitudine di cui soffri e insieme ti compiaci, e insomma ti fai forza, rievocando ancora una volta l’intera storia radicale, del partito più antico d’Italia, come se fosse messa a repentaglio, perfino nella memoria e soprattutto nella sopravvivenza efficace, in questa stretta coda di pesce del tuo digiuno.

E come se, escluso dal legame con “gli italiani” che ti figuri del tuo stesso sentire, se solo non fosse loro fraudolentemente inibita la conoscenza del tuo programma, ti restasse – ma ancora per pochissimo, temo – un solo interlocutore adeguato, il presidente Napolitano, che chiami senza maiuscole né ironia “il migliore”, ma come presumendo che voglia e comunque possa riconoscere la buona ragione del tuo esilio interno, amnistia e assenza di democrazia e violenza immensamente peggiore che nel nazifascismo e nel comunismo. E se no, prendere congedo anche da lui. Perché allora ti sto scrivendo, pur sapendo per certo di non esercitare alcuna influenza sulla tua decisione (non perché dubiti della tua amicizia, o pensi che ne dubiti tu)?

Perché almeno, a mio modo, mi preme di renderti un riconoscimento sostanziale (non ho scritto riconoscenza, che è altra cosa, buonissima del resto) che va al di là, o al di qua se vuoi, delle tue motivazioni esplicite e del vicolo cieco in cui hai tanta voglia di sprofondarti. E il medesimo riconoscimento dovrebbero, penso, renderti anche coloro i quali non abbiano per te la stessa amicizia, non abbiano fatto tanta strada senza perdersi di vista, e semplicemente trovino l’intelligenza per leggere dietro le parole una tua simpatia antica e immutata per la verità e la giustizia, quella che anche quando tutto si faccia opaco e intricato induce a riparare nei luoghi in cui l’umanità è offesa, e le celle di carcere sono uno, tra i più osceni, di quei luoghi, e tu e i tuoi non avete mai smesso di andare a cercarvi un’aria respirabile.

Troverei bellissimo che tu, oggi pomeriggio alle cinque, ora piena di desideri, bevessi un bicchiere d’acqua. Lo troverei un segno di forza, un punto in favore dell’amnistia, e un atto generoso verso tutti. Chi lo merita e chi no: tu lo meriti.

 

Adriano Sofri

(da Il Foglio, 21 giugno 2011 “Piccola posta”)


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