Marco Pannella non è un’icona, un simulacro e neanche un istrione. Forse un po’ giullare lo è, ma, attenzione, allo stesso modo di quel Francesco d’Assisi che, pervaso di profondità, fendeva con il suo amore la superficie. È un uomo che lotta senza nulla rivendicare o recriminare per sé (non lo ha fatto mai). Cosa del tutto innaturale che lo rende improponibile e non “notiziabile” in un paese come il nostro votato, nel corso dei secoli, a perseguire unicamente il guicciardiniano “particulare”. Eppure, nonostante tutto, Pannella ci esorta testardamente al rispetto della legalità, nel ragionevolmente folle tentativo di stanarci dall’ignavia, da una miserevole condizione che, per richiamare un’efficace espressione di Francesco De Sanctis, “pigliamo com'è” e ad essa “ci “acconciamo”, facendone “regola” e “istrumento”.
Alzino la mano quanti sanno che l’invocante ed evocante Pannella, nel deserto di verità in cui da lungo tempo ormai versiamo, è in sciopero della fame da quasi due mesi e, da qualche giorno, ad ottantun anni, anche della sete. Alzi la mano chi ha potuto conoscerne le motivazioni.
Si fa presto a fare, per sarcasmo, le spallucce, come per rimuovere, con l’ignoranza e l’indifferenza, qualcosa di estremamente scomodo, fastidioso. D’altronde, alla fine ci si abitua alla cenere che esce dalle ciminiere di Auschwitz o alle urla strazianti dei gulag staliniani per comportarsi, come nel bellissimo romanzo di José Saramago, come “ciechi che vedono” o “ciechi che, pur vedendo, non vedono”, non volendo intenzionalmente vedere.
Ma cosa accadrebbe se solo per un istante riuscissimo a scostare quell’oscuro velo che accettiamo incollato sulle nostre palpebre, se solo lasciassimo entrare in noi quella voce che ci chiede nitidezza e non opacità?
Cosa vuole, in fondo, Pannella? Davvero intende svuotare le celle e inondare le nostre strade di ladri e assassini oppure, al contrario, si prefigge di evitare che sia lo stesso Stato a perpetrare azioni delittuose?
Non sappiamo quale esito potrà sortire l’iniziativa nonviolenta intrapresa. Certo è grave, nel senso di una newtoniana fisicità, come un peso ineludibile incombente su di noi. La questione centrale non risiede tanto, a nostro avviso, nell’ottenimento dell’amnistia come temporanea soluzione al sovraffollamento quanto nell’impedire che dall’(illegale) emergenza carceraria si possa pervenire a un baratro, ancora maggiore, di portata devastante. Non è il caso di scomodare Michel Foucault e il suo sempre attuale “Sorvegliare e punire” o Louk Hulsman con la sua proposta di decriminalizzazione sistematica e decostruzione delle categorie fondative del diritto penale, per affermare che una prospettiva sostitutiva dell’istituzione totalitaria carceraria è possibile e auspicabile. Quel che preme a Pannella è lanciare un briciolo di saggezza sull’aridità della nostra società, inchiodare il sistema alle proprie responsabilità, all’applicazione di quell’orizzonte normativo, fatto di regole e di diritti, tanto istituzionalmente decretato quanto costantemente disatteso. Le carceri non stanno al margine ma nel cuore del sistema. Averne consapevolezza equivale a scegliere d’uscire dal tunnel senza fine.
Francesco Pullia
(da Notizie Radicali, 17 giugno 2011)