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Giovanni Maiolo. L'apartheid peruviano 
Reportage dal Perù pre ballottaggio
30 Maggio 2011
 

Il 5 giugno il Perù sceglierà il nuovo presidente nel ballottaggio tra Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore, e Ollanta Humala, che ha recentemente preso le distanze da Chavez e ha dichiarato di ispirarsi a Lula, per apparire più moderato ed esercitare maggiore fascino sugli elettori. Il nobel Vargas Llosa, pur non essendo vicino a Humala, ha chiesto ai peruviani di votarlo perché teme, in caso di vittoria della Fujimori, il ritorno della dittatura. Ma qual è il Perù che si prepara alle elezioni? Un paese che vive ancora oggi una forte questione indigena.

A Cusco, l’antica capitale Inca, ogni pietra, ogni strada, ogni edificio ha qualcosa da raccontare. Raccontano la bellezza e la genialità di un popolo annientato nel nome di dio e del re. E gli strascichi si sentono ancora oggi, perché da queste parti vige un apartheid terribile, perché non dichiarato.

 

Cristian è italiano e vive nell’ombelico del mondo, ha sposato un’indigena. Racconta che in molte discoteche lui può entrare, sua moglie no, perché gli indigeni ancora oggi sono considerati persone di serie B. E purtroppo tutto questo è troppo spesso senso comune. Eppure le civiltà indigene sono riuscite già secoli fa a raggiungere livelli di conoscenza incredibili. Per esempio nel caso dei terrazzamenti di Moray, che in lingua quechua significa “Pannocchia di mais”. Pizarro vedendo i terrazzamenti non coltivati pensò che si trattasse di un anfiteatro e ci organizzò della feste. Fino a pochi decenni fa questa era l’unica versione accreditata ma in realtà si trattava di laboratori di coltura. Tra un anello e l’altro ci sono tra i 4° e i 6° centigradi di differenza di temperatura della terra. Siccome così in alto (3.800 m) non cresce praticamente nulla gli incas piantavano nell’anello centrale, protetto dai venti e con una temperatura più elevata. Quando mais e coca si acclimatavano li seminavano nell’anello successivo per renderli più resistenti al freddo e all’altitudine e via così fino all’ultimo livello. Un lavoro di decenni e alla fine, quando mais e coca sopravvivevano nell’anello più alto, ne distribuivano i semi a tutti i contadini per poterli coltivare. Un lavoro che richiedeva decenni, altro che ingegneria genetica. Per rendere l’idea di quanto era avanzata questa civiltà basti pensare che oggi i giapponesi stanno sperimentando lo stesso modello inca

Ma nel nuovo millennio le condizioni di vita delle popolazioni indigene sono messe ancora di più in discussione da un modello di sviluppo disumano. Ho visitato le saline di Maras, dove sfocia acqua salata da sottoterra. C’è più sale in quest’acqua che in quella marina. Gli indigeni hanno costruito 4.500 vasche dove l’acqua ristagna, evapora e ne resta il sale che poi vendono. Per avere un raccolto di sale da una vasca servono 45 giorni di lavoro coi piedi ammollo (le signore che lo fanno ricordano le mondine), a spezzare, raschiare e trasportare in spalla il sale. Inoltre tutti i proprietari delle vasche vivono molto distante, a 3 ore di cammino, quindi ogni giorno oltre al lavoro massacrante nelle saline devono mettere in conto il tempo e la fatica di arrivarci. Dopo 45 giorni si raccolgono da una vasca 70 kg di sale che a Cusco viene venduto a un nuevo sol al Kg. Il che vuol dire che i produttori delle saline ogni 45 giorni hanno un ricavo di meno di dieci euro per vasca. Qualcuno ne possiede anche dieci, quindi può riuscire a mettere insieme 100 euro ogni 45 giorni, lavorando in quelle condizioni e subendo gli effetti del sale. Perché basta restare anche solamente un’ora vicino alle saline e la sete che ti assale è difficile da spegnere, il vento porta il sale che finisce per essere respirato.

I conquistadores spagnoli, quando moriva un indigeno, ne davano il corpo ai cani, tanto era il livello di disprezzo. Camminando con un po’ di fiatone, data l’altitudine e la carenza di ossigeno, è fin troppo facile incontrare gente seduta ad una panchina a leggere il giornale mentre un indigeno, spesso un bambino, gli lustra le scarpe.

 

YANAPANAKUSUN

 

Vittoria Savio è nella sua cucina e racconta di quando per strada gli offrirono un oggetto di artigianato, solitamente venduto nei negozi per 200 dollari, a soli 14 dollari.

Perché lo vendi ad un prezzo così basso? – chiese all’ambulante.

Perché questo è il costo delle medicine che servono alla mia famiglia.

In questa risposta c’è la descrizione del Perù in cui questa donna straordinaria ha deciso di vivere creando il «centro Yanapanakusun, para el desarrollo integral de las trabajadoras del hogar». E l’Hogar è il focolare, cioè la casa in cui le bambine troppo spesso vengono costrette a lavorare, perché da queste parti il lavoro minorile è la norma. Quando le bambine hanno 5 o 6 anni le famiglie indigene le mandano a Cusco, così si liberano di una bocca da sfamare e sperano che in città avranno la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita. Ma non è così, perché le famiglie a cui vengono “donate” le utilizzano da subito come lavoratrici domestiche, spezzano i legami con la famiglia di provenienza, gli impediscono di parlare quechua per insegnargli lo spagnolo e spesso gli cambiano anche il nome. E il più delle volte il lavoro non viene nemmeno riconosciuto come tale. Il centro di Vittoria offre alle chicas la possibilità di uscire da questa situazione di sfruttamento. Il suo Hogar è un luogo protetto dalle violenze, che spesso sono anche fisiche, maltrattamenti e costrizioni sessuali.

Vittoria era insegnante in un liceo di Chieri in Piemonte, vita agiata come tutti quelli che vivono dalla parte “giusta” del mondo, ma ad un certo punto ha deciso di mollare tutto (trent’anni fa) e mettersi al servizio degli altri.

«Arrivò qui» dice Vittoria «una bimba di 12 anni, accompagnata dalla polizia perché faceva la prostituta. Restò qui per un po’, cercammo di farle capire che poteva cambiare vita se lo voleva. Ma un giorno mi disse di non preoccuparmi, che lei faceva sesso da quando aveva 8 anni e che non riusciva a capire perché bisognasse lavorare duramente per quattro soldi quando ne poteva fare di più in una sola notte».

Storie ordinarie di una città splendida e turistica ma che pur provandoci non riesce a nascondere la miseria. È in questo contesto che il centro di Vittoria non si limita a dare accoglienza alle bambine ma cerca di agire all’origine del problema. Edlira è una ragazza albanese e, insieme a molti altri, lavora direttamente nelle comunità indigene. Dorme in pochissimi metri quadrati senza acqua calda per tre settimane al mese, per fare attività culturale e spiegare alle famiglie che non devono “dare” i figli agli amici delle città, perché li aspetta un futuro di sofferenza. E poi hanno affittato uno spazio in radio, gestito da ex lavoratrici domestiche che si sono liberate grazie al centro di Vittoria della loro condizione, e che cercano di spiegare alle lavoratrici e ai datori di lavoro che esistono dei diritti che devono essere riconosciuto. Rodja è una bellissima ragazza tedesca con gli occhi del mare e sta qui sulle Ande ad occuparsi della “Casa de la cultura”, dove provo a darle una mano usando più l’espressività che i bambini riescono a cogliere al volo rispetto al mio terribile spagnolo. Perché Vittoria sa che solo dalla cultura passa il riscatto. Per questo è stata creata una scuola pomeridiana, in modo che anche i bambini lavoratori possano studiare e magari raggiungere l’università e liberarsi dalle catene. È Selene, la preside, ad accogliermi nel suo ufficio, dove campeggiano manifesti a sostegno del presidente della Bolivia, l’indio e cocalero Evo Morales. In Perù la scuola pubblica è pessima. Secondo i dati dell’Unesco il 98% dei bambini indigeni è analfabeta. Nel senso che a scuola imparano a riconoscere le lettere e sanno anche leggere bene ma non comprendono quello che leggono. Quindi la scuola di Selene si concentra molto sulla comprensione del testo, ma ha grossi problemi finanziari. Vive con la retta molto bassa che gli stessi studenti, spesso contro il parere delle famiglie a cui fanno i servi, versano. E ovviamente è insufficiente. Non ci sono molti insegnanti motivati da queste parti e per riuscire a trovarli bisogna essere pronti a pagare più dei 200 dollari che questa scuola riesce a offrire.

 

MOSOQ RUNA

 

Notte. In una stanza dell’ospedale Los Jardines di Urubamba, città di cani, bambini, mototaxi, buche per strada e polvere, sono sveglio. Sono sveglio perché nonostante tutte le precauzioni del caso, nonostante abbia sempre bevuto acqua minerale o acqua prima bollita, sto molto male. E quindi sono sveglio e penso all’incontro di oggi. Sono a Urubamba perché qui una donna, croata di nascita ma profondamente italiana, a 40 anni ha deciso di mollare tutto, proprio come Vittoria Savio, e venire a vivere nel Perù della miseria, dove un terzo della popolazione non ha né elettricità né acqua corrente in casa. Fuori dalla porta della stanza in cui scrivo c’è un bel giardino pieno di fiori dove di giorno scorrazzano bellissimi i colibrì. Ma qualche passo oltre c’è una realtà fatta di difficoltà e stenti. Ed è dei bambini che vivono qui che si occupa questa donna, dal nome Ada. Mosoq Runa in quechua significa “genti nuove” ed è questo il nome della sua casa famiglia. Ma una casa famiglia insolita, dove i bambini non vengono mandati dai tribunali e nemmeno ci arrivano perché fuggono da casa. Ci vanno di loro volontà e col consenso dei genitori. Ada a 6 anni è stata separata dai suoi, finiti in un campo profughi, e sa bene cosa voglia dire essere strappati alla famiglia. Per questo non vuole fare vivere questa esperienza traumatica ai bambini che quindi vanno a stare a Mosoq Runa sempre con un fratello o una sorella, mai da soli. E lì hanno la possibilità di studiare e di essere seguiti, e di puntare ad una vita migliore.

Ho pranzato con loro (spaghetti, dei quali sentivo fisicamente la mancanza!) e Pedro, il più piccolo, con un divertente sorriso sdentato, mi ha chiesto di sedermi vicino a lui. E poi la sfida a calcio balilla Italia-Perù.

Ad aiutare Ada c’è Francesco, campano. Dopo ben 4 anni di volontariato adesso ha un contratto di lavoro e non intende tornare in Italia. Anche lui ha trovato la sua strada tra queste montagne. Per lunghi anni Ada, da immigrata, è stata costretta ogni pochi mesi ad andare in Bolivia per un paio di giorni per poi potere chiedere di entrare di nuovo in Perù col visto turistico. Alla fine si è sposata con un peruviano ed ha preso la cittadinanza.

Mosoq Runa fa un ottimo lavoro ma non riceve aiuti da nessuna istituzione, i servizi sociali a queste latitudini sono praticamente inesistenti. Solamente un’associazione di Torino la sostiene, in maniera volontaria, ma non basta. I soldi, dice Ada, basteranno fino a marzo. Poi chissà… Si è inventata una panetteria e un laboratorio di cucito dove si producono begli oggetti da vendere ai turisti, ma le risorse che entrano sono insufficienti.

Avevi un mondo intero a disposizione. Perché hai scelto di venire proprio in Perù? – le domando.

Non ho scelto il Perù. È stato lui a scegliere me.

Qualcuno dei tanti cani di Urubamba ulula al cielo o a qualche femmina mentre io, dolorante, provo a mettermi a dormire. Pedro, a qualche chilometro da qui, starà già dormendo, nelle confortevoli mura amiche di Mosoq Runa. E potrà continuare a farlo, almeno fino a marzo…

 

LE ELEZIONI

 

Il governo peruviano ha svenduto le ricchezze naturali di questo paese alle multinazionali e spesso reprime le proteste degli indigeni. Tutto questo peserà sulle elezioni presidenziali. I peruviani dovranno scegliere tra due populismi. Il padre di Keiko, nonostante i crimini commessi, è ancora rimpianto da una parte della popolazione, che sostiene con convinzione sua figlia. Le idee di sinistra di Ollanta attecchiscono fortemente in chi ha voglia di riscatto e porterebbe il Perù nell’alleanza continentale con gli stati governati dalle sinistre. Il 5 giugno i peruviani decideranno quale sarà il loro futuro.

 

foto servizio di Giovanni Maiolo

(da Durito.it, 30 maggio 2011)


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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