Quanti anni erano che non passavo di lì?
Forse venti, ma a me sembravano così tanti da non riuscire a contarli.
Piazza Cittadella aveva forse un bar in più e una merceria in meno, ma aveva ancora quelli che furono i confini della mia vita “sociale” di un tempo: la scuola e l’orologiaio.
Fu soprattutto quest’ultimo ad attrarre la mia attenzione.
La stessa insegna, la stessa vetrina che vetrina non era, ma soprattutto lo stesso uomo, incredibilmente più vecchio, che lavorava vicino alla piccola finestrella per sfruttare la luce che il sole gli offriva per poche ore al giorno.
Il tavolo sul quale lavorava era ingombro di rotelle, molle e ingranaggi esattamente come lo era venti o cento anni prima e solo un vetro lo separava dagli occhi sgranati di un bambino che forse aveva otto anni. Quel bambino ero io e non vedevo l’ora di uscire da scuola per andare a spiaccicare il naso su quella finestrella ed ammirare quell’uomo eccezionale che ricostruiva un orologio con mille pezzi tutti uguali. “Cento anni” dopo quel bambino possedeva sei orologi. Io possedevo sei orologi. Ma le funzioni si erano confuse: ero io che controllavo il tempo attraverso loro, oppure loro lo facevano attraverso me?
Una sera d’inverno un segnale orario dette un fiero scossone alla mia sicurezza: tutti e sei gli orologi erano indietro di un secondo!
La sera precedente ne avevo regolato uno sul segnale orario e gli altri cinque sul primo.
Eccola… per forza questa doveva essere la spiegazione! Avevo tardato un secondo nel premere il pulsante “set” del primo.
La sera dopo il ritardo era di sei secondi.
Dieci giorni dopo il ritardo era di sette minuti.
Non capivo e il terreno mi scivolava da sotto i piedi finché, per caso, ripassai di lì.
“Lui” era ancora là, dietro il vetro e con il monocolo sempre più vicino alle rotelle dentate.
– Buon giorno, si ricorda di me?
– Tu sei Paolo, il mio ultimo apprendista.
– Ho sei problemi che mi angosciano, eccoli.
– Perché, Paolo, li hai portati a me?
– Perché non conosco nessuno al mondo che possa risolvermeli.
– I tuoi orologi, Paolo, sono funzionanti; è il tuo tempo che si è rotto: ha imboccato una discesa… si sono rotti i freni ed io, purtroppo, non ho gli strumenti per ripararli.
E sull’ultima sillaba appoggiò la testa bianca su di un cuscino fatto di rotelle, molle ed ingranaggi.
Paolo Bocconi