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Milano, ti prego, ritorna! Intervista al candidato indipendente Alberto Figliolia 
di Mauro Raimondi
Alberto Figliolia, candidato al Consiglio comunale di Milano
Alberto Figliolia, candidato al Consiglio comunale di Milano 
11 Maggio 2011
 

Sono una trentina d’anni, ormai, che Milano se ne è andata da… Milano.

Ė dai tempi della “città da bere”, infatti, che Milano, sdegnata, è svanita nel nulla. Portandosi via la sua innata tolleranza, la sua capacità di accoglienza e solidarietà. La sua serietà e onestà. Il suo primato culturale all’interno del Paese. La sua capacità di innovare. Perché Milano, da sempre, è la città che in Italia ha rappresentato la modernità, il cambiamento: se si togliessero dalla Storia Italiana del ‘900 tutti i fenomeni che hanno avuto origine o si sono sviluppati a Milano, della patrie vicende resterebbe poco o nulla.

Di questo, vogliamo che i nostri concittadini siano consapevoli, il giorno delle elezioni. Perché è necessario che Milano ritorni al più presto fra noi, riprendendosi il suo storico ruolo. Mai come in questo momento, in Italia, si sente l’assoluta necessità, l’urgenza di una svolta. E se è proprio qui, sotto la Madonnina, che quel cancro politico e di costume chiamato berlusconismo è nato, qui è ora che inizi a morire.

Possibilmente, fin dalle prossime Amministrative. Un sogno, quasi sicuramente, visto l’incredibile (e innaturale) squilibrio tra la forza economica e mediatica messa in campo dall’attuale ricchissimo sindaco a confronto di quella degli sfidanti. Ma ben misero è un popolo che non sa sognare. E per dare luce a questo miraggio, abbiamo deciso di ospitare, nella nostra rubrica, le riflessioni di un candidato alle elezioni, pure lui in ansiosa attesa del ritorno di Milano: Alberto Figliolia, giornalista e poeta milanese, profondo (e appassionato) conoscitore della città.

Cosa ti ha spinto a presentarti nelle liste di SeL come indipendente?

«Sono stato mosso dal desiderio di fare qualcosa per questa città meravigliosa, che negli ultimi anni ha però conosciuto un tracollo di speranze, aspettative e prospettive, in un clima sociale soffocante, di malgoverno o disgoverno. Dobbiamo restituire Milano alla sua storia e potenzialità, alle illuminazioni civili e culturali che l'hanno sempre contraddistinta. E dobbiamo batterci contro il cinismo e l'ipocrisia che invece hanno operato a pieno raggio. Il Palazzo deve smettere di essere tale, luogo di potere e affari: si debbono recuperare idealità e progetti, condividendo programmi e idee. Con la gente e per la gente. Utopistico? Non se ci credi. Certo pragmatismo lobbistico si è rivelato un male insopportabile. Milano e i milanesi meritano di meglio. E non sono slogan. Per quanto mi riguarda ho maturato una serie di esperienze che reputo potrebbero essere utili: sono un dipendente pubblico, faccio volontariato in vari ambiti, sono un giornalista free lance, ho scritto parecchi libri, nei quali Milano ha la sua parte, importante, ho fatto l'allenatore di basket per oltre trent'anni nelle periferie della metropoli, e sono padre di tre figli, giovani studenti in cerca di un futuro. E non ho mai smesso di pensare alla politica come servizio per il bene comune, un fatto etico e gratificante».

Come sai, Castellaneta identificava la milanesità con la serietà sul lavoro, l'interesse per i soldi ma anche con l'apertura mentale e civile. In che modo ti identifichi con questa definizione? E quale è la Milano che vorresti?

«Sono d'accordo con Carlo Castellaneta, autore che stimo moltissimo (magnifico il suo romanzo Notti e nebbie e semplicemente stupendo il suo Dizionario di Milano), se l'interpretazione è che il lavoro è un valore e che un lavoro ben fatto è motivo di orgoglio, strumento di elevazione e utile all'individuo e alla società. Non mi piace la deriva del soldo facile e oscuro. Milano è sempre stata la città del lavoro, delle occasioni per chiunque avesse voglia e idee: l'augurio è che torni a essere questo, un magnifico crogiolo di arti, mestieri e creatività. Affinché il circuito riprenda la virtuosità che deve essergli propria, sorpassando la bieca logica del precariato, della sottoccupazione, dello sfruttamento. Bisogna tutelare i diritti di chi lavora e offrire opportunità ai giovani. A Milano, un tempo, non si rischiava di restare senza lavoro... Il presente è più arduo, data anche la crisi economica. Ma questa città ha il cuore, la testa e i nervi giusti per risollevarsi, ha risorse materiali e sentimentali senza pari. È ovvio che bisogna cambiare rotta politica, riaprendo il fronte degli ideali e riacquisendo le giuste logiche di progresso».

Tu sei cresciuto nella banlieu milanese: quali differenze trovi tra la città della tua infanzia e questa?

«Molto è cambiato, compresa la nebbia che non c'è più! Si sono inesorabilmente ridotti gli spazi verdi, a causa di intollerabili speculazioni. È pure subentrata una sorta di frenesia nevrotica, anche per quel che concerne i rapporti umani. Anche se Milano conserva una bellezza segreta, una nostalgia recondita, un profondo fluire emotivo. Come quando era una città d'acqua. Il cuore di Milano batte ancora forte. Non può essere un luogo di automi, di cieco consumo e dissennata produzione. Milano ha un'anima intelligente. E questa rinascita – auspichiamo un Rinascimento milanese – può cominciare dalle periferie estendendosi al suo nucleo antico».

Come giornalista e poeta hai avuto modo di conoscere molti personaggi della cultura milanese: chi ti ha colpito e magari influenzato maggiormente?

«Ho avuto innumerevoli incontri con persone speciali: artisti, scrittori, sportivi, che a questa città hanno dato lustro e visibilità nel mondo. Ma così penso anche riguardo al vecchio partigiano, all'artigiano, al più oscuro operatore e lavoratore. Ogni incontro mi ha segnato in positivo e dato qualcosa: da Franco Loi a Tomaso Kemeny, da Sandro Mazzola a Fabio Cudicini, da Alda Merini a Dino Meneghin, dallo spazzacamino solitario al reduce dal campo di sterminio nazista, da Luigi Cina Bonizzoni a Piero Colaprico, da Gianfelice Facchetti agli allenatori delle più improbabili équipes sportive e a tutti quelli che regalano se stessi nell'associazionismo e nel volontariato, una delle componenti più nobili del carattere meneghino. Sono grato a tutti coloro che ho incontrato per avermi donato un pezzo della loro milanesità, della loro coscienza, delle immagini sedimentate nel profondo».

Come “sta”, la cultura, a Milano?

«Potrebbe star meglio. Soprattutto dovrebbe essere più accessibile: bisogna fare una politica culturale in cui si coniughino elevata qualità dei contenuti e costi ridotti e, ogni volta che sia possibile, gratuiti. I grandi eventi non sono bastevoli alla fame di sapere, alla curiosità che va sempre suscitata e mai repressa o depressa. La cultura fa crescere. Diceva un cantautore: “Posso mangiare sassi, posso respirare fango, ma non mi deve mancare la cultura”. Le eccellenze vanno salvaguardate e non umiliate e il panorama va ampliato con iniziative e strutture. A Milano si fa dell'ottimo teatro: l'underground ha la sua forza, perché non assecondarne gli esiti con adeguati incentivi? È solo un esempio fra i tanti. Ecco, mi piacerebbe pensare a Milano come un laboratorio permanente di elaborazioni intellettuali. Che si applicano perfettamente alla vita quotidiana rendendola migliore, più fruibile, più soddisfacente. Poi, io sono fermamente convinto che con la cultura si possa mangiare».

Come rientra Milano nella tua poesia?

«Una fonte continua di ispirazione. A volte acida e onirica, a volte con squarci di disperata bellezza. Le stesse sue discordanze, sconnessioni, imperfezioni alimentano l'ispirazione. Così come la varietà delle genti o l'apparente labilità degli incontri. Dico apparente, perché credo a un'empatia che ci lega tutti al tessuto psichico di questa metropoli-villaggio che componiamo, scomponiamo e ricombiniamo incessantemente. Di Milano colgo particolari che ancora mi stupiscono: lo sferragliare di un tram, i fregi dei palazzi, i Navigli, l'ardire e l'ardore di chi vi cammina, gli universi delle metropolitane, l'umanità delle periferie, la solidarietà che si oppone al degrado».

C'è qualche quartiere o luogo di Milano a cui sei particolarmente legato?

«Baggio, Muggiano, Forze Armate, Lorenteggio, San Siro, Quinto Romano. In realtà, non vi è quartiere che non abbia qualcosa che a esso mi lega: ricordi, impressioni, emozioni, architetture, sogni a occhi aperti, la deliziosa chiesa di San Cristoforo, Sant'Ambrogio, il mio liceo, i campi di basket all'aperto, la Forza e Coraggio, le vetrate del Duomo, l'idea che Gorla era un villaggio, la Martesana, i gasometri, Cascina Linterno e Cascina Campazzo, il Planetario, l'ospedale dove sono nati i miei figli... L'elenco è sterminato».

Le scuole civiche, dove insegno, sono state ampiamente ridimensionate, quasi cancellate, dall'attuale amministrazione. Cosa pensi a riguardo?

«Quel che è successo alle scuole civiche e serali mi ha profondamente ferito. Ho seguito con dolore e rabbia quelle vicende. Non lo accetto né lo accetterò mai. Perché è stato fatto? Chiudendo o tagliando in quell'ambito si è andati a distruggere una delle più belle e consolidate tradizioni di Milano. Si sono affondate le virtù civiche con quegli intempestivi e brutali atti. Perché infierire sul popolo degli studenti-lavoratori proibendo un'importante scelta di vita e levando loro possibilità e conoscenza? Se il centrosinistra vincerà le elezioni dovrà provvedere alla riapertura e al potenziamento di questi istituti. Un passo assolutamente necessario, da compiere senza tentennamenti. Perché puoi mangiare sassi, respirare fango, ma la cultura non ti deve mai mancare. Milano è lavoro, Milano è cultura: due imprescindibili elementi della dignità di ciascun essere umano».


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