Una preghiera
per Margherita, di cui non conosco il volto
ma l’agonia.
A bassa voce. A luci ferme. Come deve essere.
Guardai la mammella della ragazza che si disegnava sotto il camicione.
Aveva capelli rossi lunghissimi, brucianti, e la pelle del colore del marmo si disfaceva a quel calore.
Ebbi un guizzo molle al basso ventre e provai l’ebbrezza di abitare il suo desiderio là, dentro la luce squadrata.
Me ne tenne lontano il ricordo del suo imminente disfacimento, come accade ai cani terrorizzati dalle percosse, quando una rapida carezza li innervosisce.
Lei fissava la mia figura verticale appoggiata al muro, e una stanchezza, inaudita per me, la abbatteva orizzontalmente nel letto.
I miei sensi, assuefatti alla luce del sole, provocavano ribrezzo in me, disgusto, comunicando alla pelle esili movimenti involontari: fremevano per sentire la pressione delle dita ovunque.
Il tempo esile, fuori, spostava grandi masse d’ombra. Illuminando i marciapiedi, a schegge, inquadrava rettangoli di mattonelle, scaldava visi.
Poi si arrestava in cima alle scale, davanti a una porta a vetri dal doppio battente, opachi, che riluceva di odori sulfurei e disinfettante.
Nella stanza entrò un’infermiera che nascondeva le mani, abili a pungere la pelle arida con ordigni salutari, dietro la divisa azzurra e un largo sorriso.
Quando si allontanò, vidi avvicinarsi alla madre e alla ragazza un’altra donna, con un vocione biondo e sano, che chiedeva di pregare insieme.
Per lei rispose la madre, come faceva da tempo: Sì.
Evocarono insieme quel dio malato che si compiaceva di tutte le parole della malattia; come i medici, che parlavano solo delle strategie di fil di ferro per combatterla.
È terribile il conforto incosciente degli ospiti, ignari dell’accaduto.
La ragazza guardava dentro i miei occhi. Il suo sangue marcio mi sfidava a viverla, mentre ripeteva a bassa voce le parole della preghiera.
Le voci, roca del conforto, muta quella del dolore, si confondono senza incontrarsi.
L’esilio del corridoio, circondato di stanze quadrate illuminate dal lampade alogene, cova urla furiose, bestemmie che esploderebbero in piena.
Ma quel luogo misteriosamente resta silenzioso. E illuminato. Come un dio malato che non sopporta lo strepito.
Mi faceva male lo sforzo di tenere lo sguardo su di lei.
Quando lo rialzai, la preghiera continuava, ma la ragazza si era stesa su un fianco.
Era scomparsa, tirandosi sulla testa il lenzuolo bianco.
Mi girai verso la finestra, l’unica sulla strada.
L’esile tempo. Ora. Aveva spostato laggiù, sulla ferrovia, le sue grandi masse d’ombra.
Dario de Giacomo