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Yoani Sánchez. I due volti di Guantánamo
06 Maggio 2011
 

Comincia la prima mattina di maggio e il sole ancora non brucia troppo forte sulla pelle, anche se l’intolleranza sembra già toccare il culmine. Un giovane ha il volto incappucciato, indossa camicia e pantaloni di colore arancio e tenta di sfilare in piazza della Rivoluzione all’Avana, durante la celebrazione della Giornata Internazionale dei Lavoratori. Gli indumenti e il cartello che brandisce fanno capire che sta facendo una protesta spontanea per i prigionieri che il Governo degli Stati Uniti trattiene nella base navale di Guantánamo. Il suo passaggio davanti alla tribuna dura lo spazio di pochi secondi e, appena scoperto da alcuni uomini robusti, viene confinato in un luogo distante dalla marea umana.

Non c’è spazio per la libera inventiva in queste coreografie popolari programmate così a lungo. Il manifestante viene portato via, mentre solo poche decine di persone e l’obiettivo indiscreto di una macchina fotografica captano il momento dell’arresto. Il caldo è diventato insopportabile sull’asfalto della capitale e tra poche ore verremo a sapere della morte di Osama Bin Laden.

La zona militare che gli Stati Uniti possiedono nella zona sud orientale di Cuba, conosciuta anche come Gitmo, è lo scenario di molte vicende drammatiche che si verificano su entrambi i lati dei confini fissati - e imposti contro la volontà popolare - dal vecchio Emendamento Platt.

Recenti rivelazioni di Wikileaks hanno messo in evidenza il gran numero di persone incarcerate dentro alcuni campi denominati X-Ray, Delta ed Echo che potrebbero essere innocenti. Autisti, allevatori e persino cuochi, catturati durante retate in Afghanistan, hanno dovuto attendere anni prima di chiarire la loro identità ed essere autorizzati a fare rientro a casa.

Forse qualcuno di loro riusciva a individuare dalla sua cella i confini della base navale dove era recluso, vedeva le zone di controllo dove si sorvegliano le frontiere e fantasticavano di eludere la sorveglianza per fuggire verso la libertà.

Falsa illusione, perché Raúl Castro aveva dichiarato nel 2002 che se un prigioniero fosse riuscito a fuggire verso l’interno del paese, sarebbe stato consegnato subito alle truppe nordamericane. “Se ne resta qualche pezzetto”, aveva aggiunto ironicamente, alludendo ai campi minati che il suo stesso Governo rifiuta ancora di bonificare.

Va detto anche che quella piccola porzione di oriente cubano è una delle zone più minate del mondo e non solo dal punto di vista ideologico. Nel municipio di Caimanera si vive a pochi metri da una frontiera costellata di mine antiuomo. Una pericolosa zona di morte la cui esistenza contrasta con la convenzione di Ottawa del 1997 che proibisce l’impiego, l’organizzazione, la produzione e il trasferimento di queste pericolose trappole che mutilano corpi.

Appena alcune settimane fa un giovane di 16 anni e il fratello giocavano con un oggetto che avevano trovato nei pressi della loro scuola, nel paese di Boquerón. Non appena l’hanno preso a calci l’oggetto è esploso, facendo finire il ragazzo più piccolo all’ospedale e il più grande al cimitero. La stampa ufficiale non ha citato l’accaduto e la famiglia non ha parlato per timore di rappresaglie. “Un’altra vittima di questa Guantánamo separata”, hanno pensato coloro che sono cresciuti tra tentativi di fuga, detonazioni e pianti.

I rischi sono notevoli, ma nonostante tutto non sognano di saltare la cancellata solo coloro che sono stati accusati di essere in collegamento con Al Qaeda. Gli abitanti di Guantanamo residenti nelle vicinanze della zona proibita vorrebbero entrare in una città costruita dagli yuma (statunitensi) che non sono mai riusciti a vedere. Una piccola città dove si parla inglese, ci sono diversi ristoranti, due cinema all’aperto e un centro commerciale.

Il segreto di questa zona militare induce a scrivere titoli a caratteri cubitali nelle pagine dei periodici di altre parti del mondo, mentre la possibilità di emigrare verso quella zona libera attrae i cubani che vivono dall’altra parte del confine. Il rischio è notevole, ma loro non lasciano niente di intentato per raggiungere quella zona della baia dove sventola la bandiera a stelle e strisce. Vorrebbero andare proprio dove si estesero gli accampamenti improvvisati che dettero rifugio a migliaia di profughi cubani dopo l’esplosione migratoria del 1994. Ancora oggi la maggior parte delle persone che tentano di entrare via terra muoiono nel campo minato e i pochi che riescono ad arrivare vengono restituiti subito alle autorità cubane. Non sempre i muri e i confini separano la diversità. A volte semplicemente tracciano una linea divisoria tra persone uguali, tra realtà o individui che hanno sogni e problemi simili. È il caso di questo confine definito da un trattato vecchio di oltre cento anni, di questa frontiera intorno alla quale si sente fremere il desiderio umano di fuggire verso il lato che non conosce. Alcuni indossano uniformi color arancio, scontano lunghe condanne e sono citati spesso dagli organi di stampa stranieri. Altri conducono esistenze monotone, fatte di mancanze e frustrazioni che spingono a correre ogni rischio pur di raggiungere una Guantánamo che immaginano ma non conoscono.

 

Yoani Sánchez

(da El País, 4 maggio 2011)

Traduzione di Gordiano Lupi


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