Leonardo Caffo
Soltanto per loro
Un manifesto per l’animalità
attraverso la politica e la filosofia
Aracne editrice, 2011, pagg. 136, € 9,00
Lo sfruttamento animale, diretta e inevitabile conseguenza dello specismo, non è affatto un’ulteriore forma di oppressione in aggiunta alle altre già conosciute, ma il fondamento stesso, come già acutamente sottolineato da Horkheimer e Adorno, di ogni pratica di sterminio di massa. E’ venuto il momento di averne piena consapevolezza e di smantellarne i presupposti se davvero si vuole costruire una società nonviolenta. Con il pretesto alimentare e con quello pseudoscientifico (vivisezione, sperimentazione animale), ma non solo, siamo quotidianamente complici di un sistema di riduzione, espulsione e annientamento dell’altro.
Sulla base di questo atteggiamento totalizzante abbiamo piegato e conformato lo stesso diritto a nostro uso e consumo, estendendo ovunque l’assoggettamento sistematico e la manipolazione dei corpi come segno di dominio, soggiogando, criminalizzando, fagocitando (in senso letterale) quanto, secondo una visione arrogantemente antropocentrica e cartesiana, si pone al di là della cesura ontologica unilateralmente decisa dall’uomo.
In questa direzione, il diritto viene ad essere la sfera in cui si sanciscono e codificano arbitrio e pregiudizio e si impone la violenza strutturale che espelle, espunge, dal contesto generale la diversità animale, paradigma per antonomasia di ogni altra differenza. Da questo stato delle cose presenti, per usare una terminologia marxiana, si può uscire tramite l’assunzione di un pensiero che restituisca agli altri esseri ciò che spetta loro ontologicamente.
Alla reintegrazione delle altre specie nel pensiero del mondo è dedicato Soltanto per loro, un manifesto per l’animalità attraverso la politica e la filosofia (Aracne editrice, 2011) di Leonardo Caffo, studioso che si ricollega a quella corrente filosofica che, nata con l’intento di approfondire problematiche antispeciste, sta arricchendo, con echi provenienti dalla critica francofortese e dal poststrutturalismo, quanto introdotto negli anni settanta da Peter Singer e Tom Regan.
Due punti ci sembrano particolarmente meritevoli d’attenzione nell’analisi di Caffo:
1) in una prospettiva di ripensamento e ricostruzione del sociale, l’animalismo è l’universalizzante del diritto (le differenze tra i viventi non possono assolutamente giustificare lo sfruttamento programmatico e perentorio degli altri animali da parte dell’uomo) e
2) l’obiettivo finale dev’essere una società liberata da ogni forma di oppressione.
Perché ciò possa effettivamente verificarsi occorre una kehre, una svolta radicale nel nostro modo di rapportarci all’altro che parta dal presupposto della vulnerabilità, della mortalità che, senza alcuna differenza, ci accomuna tra esseri senzienti e che, come giustamente ha ravvisato Derrida, rappresenta la possibilità “meno propria” dell’esistente, anzi la più impropria ed “espropriante”: «è la morte stessa», annota Caffo, a renderci infatti «infinitamente collegati con l’animalità ed è un passaggio necessario alla costituzione di quella filosofia che deve fare da sfondo all’animalismo».
Di qui la necessità di ripensare l’umano «in un mondo che non appartiene all’umano», di dirigerci «verso un orizzonte oltreumano» facendo tesoro, ad esempio, della fecondità del “divenire-animale” su cui si è soffermato Gilles Deleuze in polemica con il fallo(antropo)logocentrismo (si noti bene che Derrida, in altri modi, ha serratamente criticato il sistema carnologofallocentrico).
Se Deleuze ci ha invitato a decolonizzare il soggetto pensante dal dominio dualistico, a perorare la dissoluzione di ogni sorta di identità basata sulla opposizione di genere, Caffo, da parte sua, ci suggerisce «una riflessione sugli animali che provi a mettersi nei loro panni», che presti loro l’ascolto dovuto, restituisca voce alle vite offese, sia, per citare Matthew Calarco, attenta «alle modalità specifiche con cui gli animali si oppongono all’assoggettamento e alla dominazione».
Detto altrimenti, si tratta di «guardare il mondo con gli occhi dell’altro e l’altro con i nostri».
Non resta, dunque, che incontrare l’altro riscattandolo dai lager, dai luoghi dello sterminio e dello smembramento, come il mattatoio da cui il soggetto esce fatto a pezzi. I maiali, ad esempio, annota in questo senso Caffo, «vengono smantellati simbolicamente e materialmente e ricomposti, in vari modi e sotto falsi nomi (“pancetta”, “salame”, “mortadella”, ecc.) nelle nostre tavole e nei vari dispositivi di dominio delle nostre società. L’animale scompare come sostanza vivente e ricompare come artificio dell’uomo».
Lo stesso Slow Food non si sottrae a questa “ideologia dello sterminio” contrabbandando per “carne felice” quanto viene ottenuto da un’ennesima uccisione. Anzi, per dirla tutta, è un’operazione ancora più ipocrita mirante solo, tramite una pseudo trasparenza, a “depurare”, a rendere “più pulite”, le coscienze dei consumatori.
«Il felice massacro degli animali», scrive Caffo, «la carne che viene da un morto contento, non è solo un modo per tacitare le coscienze facendo pensare che in fondo mangiare animali non comporta le nefandezze a tutti note degli allevamenti intensivi, ma diventa anche un modo per reintrodurre la morte, l’uccisione degli animali nel quotidiano, o per reintrodurre il rapporto diretto con lo sfruttamento degli animali». In realtà, con lo Slow Food, con il “biologico”, si finisce per avallare ancora una volta la capacità umana di sgozzare e trucidare senza troppi scrupoli etici. L’ideologia della carne biologica e sostenibile serve a trasformare pretestuosamente pareti di cemento in pareti di vetro a spacciare per “serena” la fine dell’animale.
Anche l’ambientalismo e la cosiddetta “ecologia profonda” non possono sottrarsi a queste critiche, essendo sempre aspetti dello specismo antropocentrico. Che fare, dunque? Decostruire (l’umanesimo) e ricostruire (una nuova filosofia della vita), accomiatarsi dalla violenza rimarginando secoli di ferite, scarti, cesure tramite l’affermazione della compresenza, sostituire al pensiero del dominio quello della compassione. Ha ragione Derrida a sostenere che è in corso “una guerra della pietà”, una lotta che va combattuta mettendo in gioco il nostro cuore.
Francesco Pullia
(da Notizie Radicali, 20 aprile 2011)