La staccionata alta è dietro, a separare la sua casa dal lago che le sta accanto, ma questa volta è stata eretta dalla sua stessa gente per proteggerla, non per chiuderla dentro. Quanto libera è Aung San Suu Kyi, cinque mesi dopo la fine di 15 anni di arresti domiciliari? Non molto, o come un uccellino: dipende da come le fate la domanda.
Fragile, eppure forte come ferro, con le rose gialle e bianche nei capelli che sembrano smentire la sua volontà d'acciaio. Non stava bene, quando le abbiamo fatto visita questa settimana. Pure, entra nella stanza con un sorriso luminoso, con calore e grazia, ed il suo portamento eretto maschera la dolorosa spondilosi alla spina dorsale.
Andrew Comben, direttore del Festival di Brighton, ed io come presidente dello stesso, siamo venuti a filmare un'intervista, poiché Aung San Suu Kyi è la direttrice ospite dell'evento del maggio prossimo. Poiché non osa viaggiare all'estero, sapendo che i generali al governo della Birmania sin dal 1962 non la lascerebbero mai tornare, abbiamo deciso per il filmato. I suoi visitatori sono controllati, perciò c'è voluto qualche sotterfugio, nascondersi nei taxi e poi uscirne di soppiatto, prendere il traghetto sul fiume, e andarsene alla chetichella dall'ingresso posteriore dell'albergo, al fine di evitare la confisca del nostro film.
Eravamo entrati in contatto mesi or sono, quando Aung San Suu Kyi era ancora in stato d'arresto, e ci eravamo chiesti se avrebbe giudicato l'idea di dirigere come ospite un festival delle arti assurdamente frivola, o comunque irrilevante rispetto alla lotta del suo paese per la democrazia. Tutt'altro. Ha accettato deliziata: sebbene abbia trascorso 15 degli ultimi 21 anni in isolamento, ha un godimento estatico per moltissime cose. L'arte è importante, dice: «Se attraverso l'arte si riesce a far capire alle persone perché la libertà è così importante, ciò è di grande aiuto». Esplorare i suoi gusti artistici, ciò che le piace, e i suoi ricordi, è stato rivelatore e commovente. E sorprendente: ma di questo diremo poi.
La richiesta di libertà che attraversa come una tempesta il Medio Oriente spazzerà via le dittature ovunque, anche in Birmania? «Gli esseri umani vogliono essere liberi e per quanto a lungo abbiano acconsentito ad essere prigionieri, a rimanere oppressi, verrà il giorno in cui diranno: Allora è così. Di colpo si troveranno a fare cose che non avrebbero mai immaginato, semplicemente per l'istinto umano che spinge i loro volti a girarsi verso la libertà».
E quel momento è ora? «Sempre più persone, in special modo i giovani, stanno capendo che se vogliono un cambiamento devono perseguirlo da se stessi: non possono dipendere da una persona particolare, ad esempio da me, perché tutto il lavoro sia compiuto. È meno facile ingannare le persone oggi di quando lo sia stato in passato, oggi sanno cosa succede in tutto il mondo».
Il Medio Oriente non è mai menzionato nei giornali di stato birmani, organi che fanno sembrare la Pravda dell'era sovietica Wikileaks. La Nuova Luce del Myanmar reca avvertimenti sulla prima e l'ultima pagina: “L'anarchia genera anarchia. La rivolta genera rivolta, non democrazia. Spazzate via coloro che incitano alla sollevazione ed alla violenza”, e attacchi alla Bbc e a Voice of America: “Non permettiamo a noi stessi di essere sviati da trasmissioni assassine ideate solo per causare problemi”. Aung San Suu Kyi ne ride, e chiama il giornale “La Nuova Peste del Myanmar” (gioco di parole fra “light-luce” e “blight-peste”, ndt).
Il regime è scosso? «La gente sa quel che accade a causa della rivoluzione avvenuta nella comunicazione. Perciò le persone stanno diventando sempre più consapevoli del loro potenziale, e ciò va incoraggiato».
Ma quale potrebbe essere la scintilla? Una rivolta nel 1988 fu dissolta dal governo tramite l'azzeramento dei buoni del tesoro in una sola notte, di modo che ognuno perse i propri risparmi. Le proteste del 2007, a cui parteciparono i monaci, ebbero inizio con un elevato aumento dei prezzi del riso. «Nel momento in cui l'esercito comincia a sparare, la maggior parte delle sollevazioni si spengono in fretta. Ma per quanto tempo la gente resterà quieta dopo, quello è un altro paio di maniche».
La gente guarda a lei, ed ora che è libera, la Lega Nazionale per la Democrazia ha un nuovo impulso, sebbene organizzarsi sia difficile, dato che tutti i suoi leader sono fra i 2.200 prigionieri politici del paese: sentenze fino a 65 anni di carcere sono state comminate a studenti. «Paura, paura, la paura è ovunque», dice Aung San Suu Kyi.
Eccetto che dentro di lei. Nel 2003 si tentò di assassinarla quando il suo convoglio venne assalito da criminali organizzati dal governo, e settanta dei suoi sostenitori furono uccisi in quell'assalto: picchiata e incarcerata allora, è rimasta in stato di arresto sino a quest'anno.
La sua gente vorrebbe proteggerla strettamente, ma lei rifiuta. Fa spallucce, e dice che se il regime la vuole morta, c'è poco che si possa fare.
Quanto libera è, ora? Se mette piede fuori di casa, la circondano migliaia di ammiratori ovunque vada. È andata a far spese con il figlio, una volta, ma ha dovuto essere salvata dall'assembramento dei fan. «Per fortuna, andare a fare spesenon mi piace!», e invero lo shopping deve essere poco attraente, in Birmania. Un tempo la seconda nazione più ricca del sudest asiatico, nonostante le sue molte risorse, è ora la più povera, e la meno libera dopo la Corea del Nord.
Aung San Suu Kyi è libera di viaggiare attraverso il suo paese? Non proprio, lei pensa. Non ha ancora messo piede fuori Rangoon: «Fino ad ora non ho tentato di andare in alcun posto dove non mi desiderassero, ma devo cominciare a saggiare le acque di nuovo». Il suo lavoro la tiene inchiodata fra l'ufficio del partito e la sua casa, la sua ex prigione. I suoi lunghi anni di detenzione sono così eccezionali perché in parte sono stati volontari. La maggior parte dei prigionieri non ha scelta, ma ogni giorno lei avrebbe potuto camminare libera, dirigersi verso l'aeroporto e volare via, con i suoi carcerieri lieti di essersi disfatti di lei per sempre.
Ogni giorno, per quindici anni, ha dovuto prendere la decisione di restare, sola ed isolata, senza i due figli, e persino quando il suo amato marito stava morendo di cancro in Gran Bretagna, crudelmente bandito dal farle visita. Ma se voi le parlate di eccezionale risolutezza, lei si riferirà sempre ad altri prigionieri politici birmani tenuti in ben più dure condizioni, affamati, dalla salute minata: «Non penso di essere stata l'unica volontaria. Un bel po' della nostra gente avrebbe potuto scegliere di non andare in prigione, se avesse smesso di lavorare per il movimento che chiede democrazia».
È stato il rispetto dei generali per suo padre, eroe di guerra che morì combattendo per l'indipendenza della Birmania quando lei aveva due anni, a permettere che fosse incarcerata nella sua propria casa. Questa donna, Premio Nobel per la Pace, è stata anche protetta dall'opinione pubblica mondiale.
«Questa parola, 'liberi'», dice parlando di se stessa e degli altri prigionieri, «noi tutti pensiamo di essere più liberi della gente che sta fuori, perché non abbiamo dovuto scendere a compromessi con la nostra coscienza. Stiamo facendo ciò in cui crediamo. Non siamo incarcerati dietro le sbarre del senso di colpa. Perciò, penso sia questo che ci ha fatto scegliere la prigionia al posto del restare, fra virgolette, 'liberi'. Per noi, questo è il modo in cui viviamo le nostre vite».
Negli ultimi cinque mesi, lei ha ridato vita alla Lega Nazionale per la Democrazia, stabilendo nuovi servizi umanitari, scavando pozzi, aprendo cliniche e scuole con pochissimo denaro. Scrupolosamente, la Lega non accetta donazioni da sostenitori stranieri, ma solo da donatori birmani. Aung San Suu Kyi ride, mentre racconta che come loro cominciano a scavare un pozzo, il governo si affretta a cercare di scavarne uno migliore: «È una cosa che fa un sacco di bene!».
Ma è difficile programmare incontri con gli organizzatori regionali senza fondi, è difficile sapere come vanno le cose da altre parti. Aung San Suu Kyi ha appena appreso degli ammutinamenti nell'esercito dal World Service della Bbc, un salvagente, quando le informazioni sono cosi' dure da ottenere. È sollevata che la programmazione della Bbc diretta alla Birmania sia stata risparmiata dai tagli del governo, si dice “confusa” per la decisione di tagliare quella cinese. Dopo settant'anni sono appena stati trasmessi gli ultimi programmi della Bbc in mandarino per la Cina.
La pressione dall'esterno ha più impatto di quel che la gente normalmente crede, lei sostiene. È per ciò che i generali si sono sentiti obbligati a dar forma ad una nuova Costituzione, sebbene essa lasci la medesima casta militare al governo del paese, solo vestita di abiti civili.
Le finte elezioni tenutesi prima del suo rilascio sono state dichiarate “profondamente compromesse” dalle Nazioni Unite. Il suo partito non si è presentato, poiché le condizioni per farlo includevano il ripudio di tutti i suoi prigionieri politici ed il giurare fedeltà ad una Costituzione che permette all'esercito di spadroneggiare in qualsiasi momento. Ma tali elezioni sono state sufficienti agli economisti occidentali neoliberisti per chiedere un compromesso e la cancellazione delle sanzioni, accusando nel contempo Aung San Suu Kyi di “ostinazione”.
«Dicono che se potenziamo il commercio, il commercio ci porterà la democrazia.
Dicono: Quello di cui avete bisogno è una classe media, e poi avrete la democrazia.
Come in Cina?», si chiede ironicamente. «Ma il Fondo Monetario Internazionale sostiene che il disastro della nostra economia è dovuto al suo malo uso, non alle sanzioni. Le ong invitano i funzionari pubblici a seminari sulla 'costruzione di capacità': ma il problema non è che i funzionari pubblici non sono capaci, è che non fanno niente se non ricevono una mazzetta». La Birmania, su 180 paesi, ne ha solo quattro che la superano in corruzione. «Parlo con gli uomini d'affari, e loro mi dicono che ciò che previene le imprese dal nascere è che tutto casca nelle mani dei corrotti».
Il suo messaggio è che la sola risposta sta nella democrazia e nella trasparenza, ma le ong non vogliono saperne di politica, il che la fa bruciare dall'indignazione.
Cita Graham Greene: «Lui scrisse: Qualche volta, se sei umano, devi prendere una posizione. Loro dicono che noi non siamo pronti a fare compromessi. Non capisco cosa intendano. Le nostre menti non sono inflessibili, forse solo le nostra ginocchia lo sono. E noi non siamo in ginocchio».
Il suo messaggio è che tutto è politico, e niente è apolitico. Con cristallina precisione, scandisce le parole a tutte maiuscole: «Io sono una donna politica. Sarà una parolaccia, ma è ciò che ho scelto come professione. Io sono una donna politica».
Parliamo quindi del generale disprezzo per la politica, mentre il voto continua a declinare in occidente: «Chiedete loro se emigrerebbero in uno stato totalitario», risponde.
Ma si preoccupa del fatto che anche quando la libertà arriva, la gente ha la memoria corta se i risultati del governo non raggiungono le aspettative? «Ho sempre tentato di spiegare che la democrazia non è perfetta. Ma almeno ti dà la possibilità di forgiare da te stesso il tuo destino».
Nonostante tutto, sembra che la politica non occupi l'intera sua vita, mentre racconta di cosa l'arte ha significato per lei. Beethoven era una scelta che ci aspettavamo: «Per molte persone, rappresenta non solo la grandezza della musica, ma la grandezza del pensiero dietro di essa. Ho spesso desiderato, in questi ultimi anni di detenzione, di essere una compositrice perché in tal modo avrei potuto esprimere quel che sentivo attraverso la musica, che in qualche modo è più universale delle parole». Perciò il nostro Festival comincia con Fidelio, l'opera del prigioniero. Durante la detenzione, Aung San Suu Kyi ha suonato il pianoforte ogni giorno.
Ha ricordato la sua passione per T. S. Eliot quando era ad Oxford a studiare politica ed economia, perciò il Festival produrrà i Quattro Quartetti, accompagnati da un quartetto d'archi di Beethoven. Poi prende in giro le poesie tremende che le venivano insegnate a scuola nella Birmania coloniale e le recita ridendo. E infine c'è una sorpresa.
Di recente apprezza i Grateful Dead, in particolare “Standing on the Moon”: «Lo avete mai ascoltato? A me piace molto. Mio figlio mi ha insegnato ad apprezzarlo.
Anche Bob Marley. Mi piace “Get up, Stand up for your rights” ('Alzati, ergiti per i tuoi diritti', ndt). Abbiamo bisogno di più musica di questo tipo». E così il Festival le ha portato Lee Scratch Perry, uno dei mentori di Bob Marley.
Prima che ce ne andiamo, lei ci ferma per piegare un origami, un fior di loto, da mandare al Festival, dove si aggiungerà a tutti quelli posati a galleggiare nel lago del Queen's Park, a simboleggiare i molti prigionieri politici birmani.
Abilmente le sue dita si muovono avanti e indietro, e lei rammenta quando faceva la stessa cosa con i suoi figli piccoli. Eccola là, un'icona, il raggio della libertà, un simbolo mondiale di forza e perseveranza, che ride e piega la carta.
Come sempre, con il buonumore e la grazia, indossa il suo eroismo leggermente.
Polly Toynbee
(da The Guardian, 16 aprile 2011)
Traduzione Maria G. Di Rienzo
(diffusa da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 18 aprile 2011)
Polly Toynbee è presidente del Festival di Brighton, della cui edizione 2011 Aung San Suu Kyi è la direttrice ospite. Il Festival si terrà dal 7 al 29 maggio prossimi: www.brightonfestival.org