In questi giorni è una celebrità. È infatti tra i 26 minori onorati dalla Presidente indiana Pratibha Patil con il “Premio nazionale per il coraggio”, conferito annualmente a ragazzi e ragazze per i loro atti di coraggio nella vita quotidiana. Grazie al riconoscimento, sta seguendo un corso di studi triennale ed i suoi insegnanti dicono che non solo è assai svelta ad apprendere ma che è anche molto capace nel tessere relazioni con i coetanei. Fino a poco tempo fa, però, la sedicenne Sunita era invisibile come tutte le altre adolescenti dei villaggi nel distretto di Birbhum, a malapena alfabetizzata, e lavorava come operaia a giornata per mantenere i suoi genitori. Alle ragazze della sua età capita normalmente di innamorarsi per la prima volta, e ciò accadde l’anno scorso anche a Sunita. Ma quella che doveva essere un’esperienza di apertura, di tenerezza e di sogno, di crescita e di consapevolezza, per la fanciulla diventò presto un incubo. Il ragazzo di Sunita era del villaggio vicino, di un’altra tribù.
Gli insediamenti rurali indiani sono normalmente organizzati attorno ad un panchayat, o consiglio di villaggio, che viene eletto, ma grazie all’enfasi crescente posta sull’appartenenza tribale, il villaggio di Sunita, che si chiama Santhal, di panchayat ne ha due: quello legale, e quello autoproclamato, composto per lo più di criminali, che ritiene di essere il custode dell’onore della tribù e si fa le leggi da se stesso, a fantasia. Quando questo consesso, i cui membri – mi vien da dire “ovviamente” – sono solo uomini, e a stento ventenni, venne a conoscenza della relazione di Sunita la giudicò meritevole di castigo. La ragazza fu quindi assalita, spogliata completamente in pubblico e portata in giro per il villaggio, subendo nel processo sputi, insulti, lanci di oggetti e svariate molestie sessuali da parte di alcuni suoi virtuosi compaesani. La cosa doveva essere abbastanza divertente per il consiglio tribale autoproclamato, perché non solo Sunita fu fatta sfilare nuda per otto chilometri, ma della parata i “consiglieri” presero fotografie e video, trasformandoli poi in mms che furono mandati a chiunque avesse un telefono nel villaggio (e cioè praticamente a tutti).
Dopo due ore di tortura, la ragazza fu abbandonata dove si trovava – voi capite che farla camminare per otto chilometri significa uscire dal villaggio ed offrire lo spettacolo anche a vicini, passanti e così via – e tornò a casa senza che nessuno si offrisse di aiutarla. La vicina stazione di polizia di Mohammadbazaar non mosse un dito per soccorrerla. Il panchayat legalmente eletto se ne stette ben zitto. I genitori di Sunita avevano più paura di tutti e le dissero di fare altrettanto. Per due mesi la ragazza visse in un angolo della sua capanna, isolata e ignorata. Quando si sollevò dalla disperazione e disse ai suoi che voleva giustizia, fu rinchiusa e l’intero parentado si presentò a suggerirle di dimenticare e di lasciar perdere. Sunita non riesce ancor oggi a crederci: «Continuo a chiedermi come potevano persino pensare che avrei potuto dimenticare quel che mi era accaduto. Io vivo con quel dolore, e quel dolore resterà con me per sempre. Ma da ora in poi, lotterò per mettere fine ai crimini commessi contro le donne in nome dei cosiddetti valori tradizionali».
Sunita dalla polizia c’è andata da sola, di soppiatto. Ha sporto denuncia. Quando la polizia è venuta a casa sua per le indagini, la famiglia le ha detto di non cooperare, ma Sunita da quell’orecchio non ci sentiva più. Bidhan Ray, un funzionario delle forze dell’ordine che ha seguito il caso, ricorda: «È raro che una vittima abbia tanta fiducia e perseveranza. Noi pensavamo che la depressione non le avrebbe permesso di collaborare alle indagini in modo significativo. Spesso le vittime di crimini diventano ostili e reticenti. Ma Sunita identificò senza paura tutti i perpetratori. La sua forza d’animo le avrebbe vinto il sostegno di chiunque». I sei organizzatori dell’oltraggio alla ragazza furono arrestati nel giro di due giorni. Temendo una ritorsione da parte dei sostenitori del panchayat fittizio, l’amministrazione pubblica inviò la ragazza ad una struttura comunitaria di Rampurhat, dove si trova tuttora. Non è stata una precauzione di troppo: i suoi torturatori sono oggi fuori di galera su cauzione, parecchi membri della sua famiglia si rifiutano ancora di avere a che fare con lei, e nel villaggio si mormora che se tornasse a casa la sua vita non varrebbe un soldo.
Niente di tutto questo ha scosso davvero Sunita: «Non sono tornata al villaggio, ma questo non significa che io abbia fatto qualcosa di sbagliato. Voglio prima finire gli studi, poi tornerò e lotterò per le altre ragazze che sono state abbandonate come me». E sembra quasi che queste altre ragazze lo sappiano. In tutta la regione, la notizia del premio nazionale per il coraggio ad una di loro, la storia dell’inarrestabile Sunita, è sulle bocche delle adolescenti. E sono bocche che la raccontano sorridendo d’orgoglio.
Maria G. Di Rienzo
(da Lanuvola's Blog, 7 aprile 2011)