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Silvio Aman, Piccola passeggiata floreale.
31 Luglio 2006
 

Più indicato di così, per una Telluserra, non poteva essere il breve saggio del poeta e saggista milanese attualmente in libreria con Nel cuore del Drago per i tipi di Interlinea Edizioni.

 

 

PICCOLA PASSEGGIATA FLOREALE

 

A Roberta Bruno Pagnamenta

 

Nella loro grande opera in due volumi, Il libro dei fiori (Milano, Garzanti, 1968 e 1976) lo scrittore “pollice verde” Ippolito Pizzetti e Henry Cocker, grande autorità mondiale nell’arte dei giardini, dedicano a ogni fiore una piccola monografia dove possiamo subito notare, che prima di rivolgersi all’origine della specie, alle sue varietà e alle tecniche di coltura, laddove è possibile essi accompagnano la presentazione del fiore con notazioni di ordine mitologico, storico e letterario, senza tralasciare qualche riferimento alla farmacologia. Per quest’ultima, sarà utile consultare l’erbario di Giovanni Negri (Milano, Ulrico Hoepli, 1979) dove, con buona pace di Jean-Jacques Rousseau, che amava la botanica sub specie contemplandi e non l’utilizzo delle erbe a scopo curativo, potremmo conoscere le proprietà delle piante, coltivate anche su vasta scala per l’erboristeria, l’industria farmaceutica e la profumiera, e certo non più in base alla segnatura, ma secondo l’osservazione scientifica. Un capitolo speciale richiederebbe l’uso dei famosi fiori di Bach, cioè del medico batteriologico Edward Bach (1886-1936) che scoprì l’energia contenuta in un certo numero di essenze ricavate da fiori silvestri, il cui impiego segue il criterio di curare il malato e non la malattia.

Questi richiami nell’opera di Cocker e Pizzetti, rivolta alla coltivazione dei fiori da parte degli appassionati, non vanno comunque presi come semplici curiosità, perché sebbene sporadici e brevi, essi suggeriscono cosa significhi occuparsi di fiori e giardini, con tutto ciò che comportano sul piano mitologico, simbolico, filosofico, storico ed estetico. Chi intendesse affrontare le cose da questi punti di vista, potrebbe leggere le opere che Massimo Venturi Ferriolo, studioso di fama internazionale, ha dedicato al giardino, come Nel grembo della vita. Le origini dell’idea di giardino (Guerini e Associati, Milano1989), Giardino e filosofia (ivi, 1992), senza dimenticare Il giardiniere appassionato, del grande scrittore Rudolf Borchardt (Adelphi, Milano 1999), e La poesia dei Giardini, di Dmitrij Sergeeviè Lichaèev (Einaudi, Torino 1996), imponente studio sui giardini, da quelli dell’antica Rus´ e del Medioevo occidentale a quelli romantici, fino all’eclettismo del XIX secolo; opere sicuramente in grado di introdurci all’idea che il fiore non è mai stato solo un fiore, e che il giardino non si costruisce per accogliere un campionario di tinte, perché la loro presenza è legata alla storia dell’uomo in rapporto al cosmo. L’importantissima opera di Borchardt, farà poi comprendere al lettore che nel Cinquecento e in epoca barocca il giardino cosiddetto all’italiana, ricco di vasche e sculture, non era uno spazio dedicato ai fiori, bensì alle piante ornamentali nelle forme date loro dall’arte topiaria.

Io penso che solo i botanici potrebbero nutrire la speranza di circoscrivere il loro campo di indagine, riguardo ai fiori che intendono studiare, sebbene la scienza tassonomica, inseguendo la folle brama di una inequivocabile classificazione, non manchi, per fortuna, di innescare dissidi e contrasti all’interno della comunità dei botanici: l’Amaryllis belladonna (Amarillidaceae) è un genere monotipo, con le sue varietà, o comprende anche l’Hippeastrum, e la Glicine la si deve chiamare Wistaria o Wisteria sinensis? Se invece abbandonassimo il campo scientifico e della coltivazione industriale per dedicarci a ciò che i fiori hanno suscitato in relazione alla mitologia, all’iconografia e alla simbologia floreale nella pittura e nella letteratura, ci accoglierebbe un mondo pullulante e contraddittorio, un mondo, cioè, in cui domina la molteplicità dei significati attribuiti ad essi in rapporto ai simboli e alla loro trasmigrazione, secondo la civiltà nella quale vennero contemplati.

Vedremmo allora che la rosa, nei cui riguardi Afrodite si era deliziosamente vendicata della puntura al piede tingendola di rosso (rosa che arrossisce, pudicamente impudica, vista poi l’associazione con la dea e l’intimità femminile così ben ricordata da D’Annunzio, per non parlare del senso che questa ha assunto nella poesia di Rainer Maria Rilke), assumerà in epoca cristiana il simbolo della Madonna – a cui è dedicato il rosario – del Cristo (“Rosa d’oro”) e della donna nella poesia stilnovista. Ciò accade quando un fiore valica l’interesse personale per assumere la portata di simbolo in rapporto a una precisa corrente di pensiero. Il Cristianesimo non ha lasciato nulla di intentato anche in questo campo, e nell’assorbire la cultura classica fu politicamente pronto a sostituire e assimilare il significato che i fiori assunsero nella mitologia greca, cristianizzandoli. L’anemone (ranuncolaceae) nato dal sangue di Adone amato da Afrodite e ucciso per errore da Amore, la cui ricomparsa indicava per i greci la sua ciclica, ma effimera resurrezione dal mondo degli inferi (come è evidente nella festa estiva e tutta femminile delle Adonie, festa alla quale Marcel Detienne ha dedicato l’importante studio I giardini di Adone – Einaudi, Torino 1975), venne in seguito associato alle gocce di sangue del Cristo crocifisso. I cosiddetti Giardini di Adone, coltivati in recipienti di argilla posti sui tetti dalle donne greche, appassivano rapidamente sotto la canicola (visto che la festa è fissata al 20 luglio, «con la levata eliaca della costellazione del Cane»), perché i cereali utilizzati, restando senza radici, immaturi e incapaci di fruttificare, rappresentavano la sterilità in rapporto alla prematura morte del giovane, e quindi «una forma inversa della cerealicoltura» legata a Demetra. Sarebbe interessante poter mettere in contatto questa remota celebrazione dell’adolescenza sterile di Adone, che per contro «è anche l’adolescente precoce» – e per questo senza sviluppo – alla cultura dei fiori, specie nella versione che li vede accuratamente scegliere e disporre recisi nei vasi colmi d’acqua… E scegliere cosa, se non gli organi sessuali della pianta per le loro affascinanti livree? Mazzetti sterili, dunque, e unicamente formati per la loro bellezza tanto rigogliosa quanto effimera… ma non per lo spirito.

I taciti fiori suggeriscono di volta in volta tutti i possibili sogni e segni che sensibilità, proiezioni, religioni, superstizioni, narrazioni mitologiche e fiabesche gli attribuiscono, compreso anche l’interesse per le metafore e le analogie in rapporto alla loro forma e tinta: basti pensare al giglio (nella specie Lilium candidum – gigliaceae), segno di purezza, e quindi attributo di alcuni santi; alla Passiflora (passifloraceae), nei cui organi riproduttivi si sono voluti identificare gli strumenti della passione di Cristo, o alla primula (primulaceae), ora bunch of keys – perché assomiglierebbe a un mazzo di chiavi: quello che gli innamorati amano scambiarsi, e quello di San Pietro – ora unmarried primrose, perché sorta nel periodo in cui gli insetti scarseggiano, non riuscirebbe per tempo a riprodursi, rimanendo quindi nubile.

Molti scrittori, poeti e pittori (per le cui opere occorre tenere in debito conto le eventuali richieste del committente), hanno dedicato parte dei loro pensieri al proprio fiore preferito, a volte senza neppure preoccuparsi di accordarli alla stagione della loro comparsa, sicché noi vedremo apparire, a dispetto del legalismo del Pascoli, mazzetti di rose e viole, per esempio in Bernardo Tasso e in Leopardi, dal momento che a costoro importava molto di più la simpatia dei suoni (rose-viole), il contrasto dei colori, delle forme e dei significati. Leggendo il testo di Bruno Haas (in Fiori, cinque secoli di pittura floreale, Campisano, Roma 2004), possiamo comprendere come dall’ultimo quarto del XVI secolo la pittura floreale esca dal contesto scientifico che animava le precedenti illustrazioni, per avviare una retorica dei fiori, rappresentando dei bouquets come discorso e insieme di messaggi senza per questo scordare la farmacopea. Non la scordarono i pittori: nella Madonna del coniglio di Tiziano (Parigi, Museo del Louvre), le malve dipinte in primo piano, oltre a “far giardino” alla Madonna richiamano la facoltà di far salire il latte alle giovani madri, e sono quindi simbolo del latte materno e della fecondità.

Tutto ciò si rende possibile là dove il fiore appare staccato dal contesto del giardino per assumere, autonomamente, valore di simbolo associabile ad altri per composizione, come si farebbe con le parole e le note musicali. Si tratta di una emancipazione favorita dallo spostamento dell’interesse rivolto agli erbari, e all’Hortus sanitatis, che tuttavia continuò con la pubblicazione del Plantarum vivae eicones di Otto Brunfels (pubblicati da W. Rytz in Pflanzenaquarelle des Hans Weiditz aus dem Jahre 1520, Berna nel 1936), in cui le piante ritratte dal Weiditz mostravano come l’interesse botanico e medicinale apparisse soverchiato da quello filologico e dalla tendenza volta a descrivere specie esotiche. Facile immaginare, come simili descrizioni abbiano stimolato il virtuosismo rappresentativo: ne sono la prova, sia pure in un’epoca successiva, i meravigliosi Vélin di Pierre-Joseph Redoutée (1759-1840), nominato disegnatore del Cabinet di Maria Antonietta. I Vélin sono acquarelli dipinti su velino, cioè delicatissima pergamena bianca ricavata dalla pelle di vitello di latte. Redoutée, che ebbe modo di attraversare senza scosse il periodo rivoluzionario e di ottenere poi, nei giardini della Malmaison, il brevetto di «Pittore di fiori di S. M. L’Imperatrice», nel 1796 inventò un nuovo procedimento esecutivo, giunto al suo trionfo con la pubblicazione di Les Roses, 1817-24, consistente nel far incidere il fiore su tavola per poi applicarvi i colori, e i risultati furono a dir poco strepitosi.

Nei bouquets dipinti dalla fine del XVI secolo in poi, pratica favorita dallo stimolo offerto dalle nuove specie importate attraverso il commercio con l’Africa e l’Asia, prevale quindi il criterio della composizione in rapporto alla «riorganizzazione della fruizione dei fiori e del loro significare», in cui si affaccia anche l’idea del fiore «offerto in dono», come ci spiega sempre Bruno Haas, che al riguardo cita la cesta di fiori in Sacra famiglia di Berent van Orley (Madrid, Museo del Prado). Sebbene nell’ambito di questa pratica i fiori composti in bouquets non possano mai cessare di appartenere al regno naturale, essi, nel messaggio che si intende proporre, vengono associati a prescindere dalla stagione di fioritura. Da ciò si può anche comprendere come il fiore non separato dalla terra e dalla proprietà curativa dei suoi elementi (un tempo viziata dal pregiudizio della “segnatura”, per cui la facoltà di curare il fegato riferita all’Epatica – Anemone Hepatica L. – la si evinceva dalla sfumatura porporina nella pagina inferiore delle sue foglie) assolva a funzioni ben diverse dal mazzetto inteso a rivestire una portata simbolica. Il nostro “Dillo coi fiori”, in base al significato attribuito alla specie, alla tinta, al numero e al nome volgare (“giglio della Madonna”, “ombelico di Venere”, “non ti scordar di me”, “viola del pensiero”, “borsa del pastore”, “sigillo di Salomone”, “Croce di Gerusalemme”, etc.) indica molto chiaramente simile direzione, e come essa non tenga più conto della natura, viste poi le metamorfosi sterilizzanti a cui il fiore viene sottoposto da parte dei coltivatori.

Tornando ai dipinti di bouquets, al loro linguaggio cifrato, possiamo notare molti elementi: la cura dedicata alla loro composizione in rapporto alle forme e ai colori, spesso cangianti, come nel Vaso di vetro con fiori in una nicchia di Boschaert il Vecchio (Parigi, Museo del Louvre) dove è evidente il moto ascensionale – climax cromatico-compositivo – e l’allusione erotica offerta dal croco “maschile” collocato fra due rose; il gioco delle sovrapposizioni e l’ordine di apparizione delle specie: davanti, di fianco, dietro o in posizione seminascosta, nel senso che, in base all’importanza, corolle e foglie vengono disposte secondo un criterio scenografico. Se le rose e le loro livree (rosa per la ragazza vergine, bianca per la madre) sono interpretate come positive, L’aquilegia e il giacinto azzurro assumono, per contro, una connotazione funeraria: la prima in quanto simbolo della passione di Cristo e a causa dell’assonanza fra i nomi francesi ancholie, come viene chiamata in Francia, e melancholie, senza, tuttavia, dimenticare gli altri nomi e relative interpretazioni (che ci introducono nel campo della pluralità dei simboli e della loro opposizione), fra cui quella di “Amor perfetto”, sorta forse perché la specie, essendo androgina, richiamerebbe simile perfezione; il secondo perché legato a due leggende ovidiane: quella per cui la pianticella nacque dal sangue di Aiace che si suicidò per non essere riuscito a ottenere le armi di Achille, e quella riferita a Giacinto, bellissimo giovane amato da Apollo, che lo uccise per sbaglio durante il lancio del disco.

Alfredo Cattabiani, nel suo Florario (Mondadori, Milano 1996 e Rizzoli, Milano 1996, 1998), cita Pausania riguardo al culto di Giacinto e alla festa a carattere agrario delle Giacinzie (Hyákinthia), lasciando così intendere che la simbologia floreale legata a vicende mitologiche può riguardare, su un piano di maggior concretezza storica e antropologica, i modi di produzione nell’antichità, il ciclo delle loro culture agricole. Del resto, che questi passaggi in grado di distoglierci da una lettura superficiale dei miti siano possibili, ce lo dimostra lo storico della scienza Giorgio de Santillana. Egli, in Fato antico e fato moderno ( Adelphi, Milano 1985) e in Il mulino di Amleto (ivi, 1983), legge alcune figure degli dei come il risultato di un calcolo astronomico. Venere – qui meglio indicata come Afrodite Urania – è anche la stella del mattino e della sera, stella che nel corso di otto anni disegna nel cielo il pentagramma pitagorico.

Tornando ai colori di cui si parlava prima riguardo all’aquilegia e al giacinto, i greci, ritenuti daltonici da Nietzsche, pare non abbiano conosciuto l’azzurro, che secondo Manlio Brusatin (Storia dei colori, Einaudi, Torino 1983) non apparirebbe nei poemi omerici: l’«attribuzione di glaukopis ad Atena va intesa ‘dagli occhi di civetta’ con le caratteristiche di vedere e di essere veduta nella notte, tanto che il volatile notturno servì a rappresentare il genio della città di Atene». L’azzurro, imparentato con il nero, si mostra infatti come “luce-umbra”, fenomeno dimostrato da Goethe nella sua Farbenlehre, e non possiede certo la forza luminosa del giallo. Un oggetto scuro posto in lontananza, agendo da sfondo dietro la luce, appare azzurro, come si vede dalle montagne e dal cielo illuminato contro il nero cosmico. Si tratta, insomma, di un colore spettrale in grado di incutere timore, e a tal riguardo Brusatin parla del caeruleus color ricavato dalla pianta del guado con il quale, citando Tacito, «i Britanni (Picti) usavano dipingersi il corpo per apparire terribili in battaglia, come ‘eserciti spettrali’».

Il regno di Flora occupa un posto talmente significativo nella nostra cultura, da lasciar supporre in noi una costante nostalgia del paradiso terrestre, e il desiderio di ricrearlo in qualche modo. Oltre alla sua presenza nel nostro linguaggio figurato, pensiamo alle stoffe per tappezzeria, per tendaggi e per abiti da donna, generalmente a fiorami, fino ai Jeans con la costa fiorita indossati dalle nostre ragazze; ai cappelli “giardino” portati un tempo dalle signore; alla serie pressoché infinita dei motivi ornamentali nell’ambito dell’architettura (specie nello Stile floreale), del mobilio, del ferro battuto, dell’editoria, dell’industria dei profumi, dell’arte vetraria… E a proposito del vetro, non sarebbe interessante leggere anche qualche testo di “bicchierologia”? Perché oltre ai vasi, spesso decorati con motivi a fiori, furono i bicchieri a offrirsi come dimora acquatica a mazzi e mazzetti: si osservi il bel Römer di origine tedesca che accoglie l’incantevole mazzo dipinto su rame da Jan Bruegel il Vecchio (detto “dei velluti”) per il cardinale Federigo Borromeo.

Quanti fiori accompagnano poi le figure religiose e profane nella pittura e nella letteratura, ora in termini di linguaggio cifrato e araldico, ora seguendo la predilezione dell’autore! Pensiamo al già nominato Giacinto, nel quadro Il regno di Flora di Nicolas Poussin; al tulipano, simbolo di caducità, in I quattro filosofi di Pieter Paul Rubens; all’iris come simbolo della Vergine, nella Vergine col Bambino di Gerard David; alla mistica e famosa blaue Blume di Novalis, fiore-emblema del Romanticismo; ai girasoli di Van Gogh e Montale; alle ninfee di Monet (Nynphaea – ninfeaceae); ai vaporosi biancospini di Proust (Crataegus oxiacantha – rosaceae); ai funerei asfodeli di Poe (Asphodelus albus – gigliaceae) derivati dall’Odissea omerica; ai fiori quasi osceni di Des Esseintes, nell’A rebours di Huysmans, le cui forme e colori gli ispirarono paragoni con la vescica del porco, la sifilide, la lebbra, l’apoplessia, la clorosi, le cicatrici, il rosa dei moncherini, le miche di iodoformio, dal momento che a lui non importavano le aiuole ingentilite dalle violacciocche, bensì le specie rare e capaci di stimolare i gusti erotici e estetici di un essere ormai lontanissimo dai piaceri delle persone semplici. Che costui non fosse una persona semplice, bensì un esteta, ce lo indicano soprattutto i nomi delle piante in suo possesso, come Alocasia Metallica, Amorphophallus, Encephalartus horridus. Ricordiamo poi la ginestra di Leopardi (papilionaceae), le Iris (iridaceae) dei decadenti; la digitale (Digitalis purpurea – ranuncolaceae) e il Gelsomino notturno del Pascoli (Mirabilis Jalapa – nictaginaceae); i convolvoli dello stile floreale; l’aquilegia di Ceronetti (ranuncolaceae)… La lista potrebbe tranquillamente circondare il globo, ma io vorrei ricordare ancora, fra le decine di benevoli fiori presenti nella poesia di Alberto Nessi, Rosa di bar (in Il colore della malva, Casagrande, Bellinzona 1992), col suo andamento riecheggiante il rondò:

 

«Nel secchio nascosto dai pinastri

la rosa ascolta

le voci, l’urto del sacco nel container

le scarpe di chi cerca sull’asfalto

chissà che cosa.

Rosa curiosa.

 

La rosa guarda

col suo occhio di fragile sorella

dei poeti, chi passa per la strada,

senza essere vista, vicina

e lontana dalla gente.

Rosa paziente».

 

Come si vede, a parte le esigenze che hanno impegnato i pittori di cestini e bouquets col loro corollario di insetti (compreso il perpetuo bruco – memento mori – pronto a divorarli), i fiori possono indicare la condizione spirituale in cui si trova un soggetto o divenire l’emblema di una poetica: «sarò fiore e profumerò un poco», disse lo Jacob von Gunten di Robert Walser, alludendo alla propria esperienza di vita, mentre Rilke, riguardo alla sua poetica, cioè all’idea dell’eroe che afferma la propria identità senza fermarsi né presso la madre né presso le donne amanti (VI Elegia), cita il fico (Ficus carica) perché «salta la fioritura» mostrando fin da subito il frutto (falso frutto, per la verità). Ma sebbene a Rilke, nella grandiosa elaborazione delle sue Duineser Elegien, non importasse, i fiori del fico esistono: il ricettacolo carnoso, futuro siconio, è tappezzato al suo interno di piccoli fiori fecondati dall’imenottero Blastophaga psenes (caprificazione) che si sviluppa nei fiori del fico selvatico o caprifico.

Pensiamo poi anche ai botanici e ai monaci botanici che con grande rischio viaggiarono in terre ignote portandoci così tante specie, e alla folta comunità dei giardinisti e architetti di giardini che andrebbero proposti per la beatificazione, se non si credesse, come io credo, che i giardini da loro sognati e progettati siano già gli unici e veri paradisi dell’universo. Pensiamoli, dunque, ma senza scordare il numero infinito di coloro che amano i fiori limitandosi a contemplarli o che, senza essere botanici, li coltivano con grande sapienza. Ho proprio qui davanti a me una bella brochure, dono di una delicata amica di Mendriso, ove appaiono in foto diverse specie di meravigliose Peonie coltivate dall’ex ministro e politico di alto rango Sir Peter Smithers nel suo giardino di Vico Marcote nel Canton Ticino, fra le quali spiccano l’ibrido di Peonia Arborea Americana Banquet dai petali rosso scarlatto e dalla splendida corona di stami sulfurei, ottenuta con l’ausilio “matrimoniale” della peonia selvatica di origine cinese Delavayi; l’arborea “Mai Hime” (“Principessa danzante”) con petali dalle sfumature lacca rosa molto sfrangiati e mossi, appunto, come in una danza a tratti isterica; gli ibridi di Vico Marcote “Tempesta di Ghiaccio” e “Barone Thyssen-Bornemisza” dalla meravigliosa tinta cremisi.

Tutto “rose e fiori”? No, perché coltivare fiori richiede molta pazienza, oltre che perizia, e d’altra parte non tutti si dedicano alla cura dei generosi pelargoni, sicché le delusioni sono spesso dietro l’angolo. Non tutto “rose e fiori”, se gettiamo poi uno sguardo alle manovre folli degli olandesi tulipomani che, dalla fine del Cinquecento in poi, commerciando questo bulbo proveniente dalla Turchia, si avviarono alla catastrofe economica. Essi riuscirono a coltivare 500 varietà di tulipani, e col crescere della domanda (si erano dati in massa alla coltivazione e commercio dei bulbi, emettendo continue lettere di cambio), si ebbe anche un vertiginoso aumento dei prezzi. Ma il volo entusiastico della loro economia bulbosa, certo più simile a quello di Icaro che non a quello dell’allodola verso il sole, non poteva effettivamente reggere, specie se si pensa che il “Semper Agustus” era passato da 5.500 fiorini nel 1633 a 10.000 nel gennaio del 1637, cifra che quasi nessuno era in grado di sborsare. Iniziò la fase del ribasso, anche per l’intervento dei magistrati, e il crollo fu inevitabile.

Devo proprio concludere questa passeggiata con la catastrofe degli olandesi, ancora oggi grandi esportatori di semi e bulbi, compresi i tulipani? No, assolutamente! Assieme ai fiori che di tanto in tanto mi concedo di ammirare nei Giardini delle Isole Borromee, di Villa Melzi D’Eril a Bellagio, di Villa Carlotta a Tremezzo, di Villa Taranto a Pallanza, e nello stesso giardino ancora ottocentesco che ho l’occasione di attraversare per raggiungere la mia casa… assieme a questi fiori ricorderò per sempre le delicatissime Soldanelle (primulaceae) e un Anemone Pulsatilla (ranuncolaceae) che vidi un giorno spuntare dalla neve sulle Dolomiti dell’Alta Val Pusteria, e così pure un solitario Aster alpinus (compositae) su un lieve pendio delle Alpi svizzere. Apparizione miracolosa, teofania vegetale della divinità: così mi apparve il fiore dall’occhio solare e dalle folte ciglia blu.

 

Silvio Aman


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