Il vento del cambiamento ha cominciato a soffiare in Tunisia, ma poi si è diffuso in Egitto, Libia, Yemen, Algeria, Sudan, Bahrain, Siria... e voci di donne cantano nel vento.
«Le donne tunisine hanno partecipato ad ogni singola manifestazione prima e dopo la caduta del regime di Ben Ali, cercando un ruolo nuovo per il futuro e tentando di ottenere che le loro voci fossero ascoltate», dice Hedia, quarant'anni, responsabile della raccolta dati per il Centro di istruzione e ricerca delle donne arabe in Tunisia. «Rappresentano generazioni diverse ed hanno retroterra molto differenti, ma c'erano tutte, quelle con l'hijab e quelle con la minigonna. C'è una consapevolezza molto alta fra le donne del fatto che dovremmo muoverci per non essere escluse o marginalizzate. Nonostante l'intensa partecipazione alle proteste, la presenza delle donne nel primo e nel secondo governo provvisorio che si sono formati non la riflette».
Le fa eco l'attivista egiziana Amal Sharaf (foto), insegnante d'inglese trentaseienne: «Metà delle persone presenti in Piazza Tahrir erano donne. C'è una generale richiesta nell'opinione pubblica di partecipazione collettiva alla politica, perciò anche le donne devono farne parte. Mia madre mi ha detto per anni di star lontana dalla politica, perché secondo lei ci avrei guadagnato solo dei mal di testa, ma oggi la sua prospettiva è cambiata: Stai attenta alla controrivoluzione, mi dice un po' scherzando e un po' sul serio».
Nel frattempo, le siriane mettono le mani avanti: «Il nostro motto è “Per una società libera dalla violenza e dalla discriminazione”, perciò condanniamo l'uso della violenza da qualunque parte arrivi. Il governo dev'essere responsabile per le azioni delle sue forze di sicurezza, non solo con la retorica, ma attraverso un'indagine reale e trasparente che riguardi chiunque agisca in modo violento. L'uso o persino la minaccia della violenza da parte dei manifestanti è anche per noi interamente inaccettabile. Il fine non giustifica i mezzi. Il nostro scopo è una cittadinanza autentica, che contrasti ogni uso di violenza o divisione etnica e tribale. Diamo il benvenuto ad ogni progresso nella pratica della cittadinanza, perché crediamo che essa aiuti la causa della nonviolenza e le istanze relative alle donne, ai bambini ed alle persone in difficoltà. Infine, condanniamo nel modo più assoluto ogni persona o gruppo che impieghi retorica settaria, etnica o tribale: confinarsi in tali identità ristrette va contro l'ispirazione di ogni cittadino e cittadina siriani che vogliono godere del loro diritto fondamentale all'eguaglianza, eguaglianza di diritti e di doveri, al di là dell'etnia, della religione, del genere o di ogni considerazione discriminatoria» (tratto dal comunicato dell'Osservatorio delle donne siriane del 23 marzo 2011).
Un'altra Amal (Basha), yemenita del Forum delle sorelle arabe per i diritti umani, sembra avere la stessa visione: «Una vera democrazia significherà necessariamente eguali diritti ed eguale partecipazione per uomini e donne. Alle donne nel nostro paese non è permesso prender parte alle decisioni, non sono riconosciute come uguali esseri umani e non sono nei posti dove meriterebbero di essere per capacità e qualifiche. La discriminazione è il nostro grande problema: verso le donne, fra uomini, fra nord e sud del paese. Quel che c'è di positivo nel movimento in Yemen è che la chiamata al cambiamento ha unito le persone da nord a sud. In questo momento, tutti gli yemeniti vogliono un cambiamento. Le richieste di separazione da parte del sud del paese sono cessate. La richiesta è la stessa da parte di tutti: cambiamento, cambiare il regime, cambiare il sistema. Un paese moderno, rispetto per la legge, una Costituzione che rifletta la volontà del popolo ed assicuri il bilanciamento fra i vari poteri: questo è ciò che la gente chiede, metter fine all'oppressione, alla carcerazione di migliaia di persone, e all'uso della guerra come mezzo per risolvere i problemi».
Amal Basha, assieme ad una ventina di organizzazioni di volontariato, organizza l'assistenza alle manifestazioni pacifiche, composte per la maggioranza di studenti: hanno creato comitati per la salute, per il coordinamento fra dimostranti, per l'informazione, per la protezione dalla violenza. Amal è un po' preoccupata dalla scarsa visibilità internazionale della protesta: «La comunità internazionale non deve tacere su quel che accade in Yemen. La gente in Libia ha dovuto fronteggiare una repressione brutale e non vogliamo che quel che sta succedendo in Libia succeda anche a noi».
Attenta agli sviluppi nei vari paesi arabi è anche la tunisina Hedia: «Al di là di quel che sarà il risultato delle proteste in ogni nazione o di che impatto la partecipazione delle donne ha ora, il vero indicatore sarà quanto la loro partecipazione nel fare la storia si rifletterà nel partecipare dopo al processo decisionale. Questa è la cosa più importante, ciò che verrà».
Maria G. Di Rienzo
(da Telegrammi della nonviolenza in cammino, 28 marzo 2011)
(Fonti: Gulf News, Women Living Under Muslim Laws, The Guardian, Syrian Women Observatory, Sisters' Arab Forum for Human Rights)