Guillermo Cabrera Infante
O
Editorial Seix Barral (Biblioteca Breve), Barcellona 1975
O non è certo il libro più conosciuto di Guillermo Cabrera Infante. In Italia non è mai stato tradotto e molti critici dimenticano di citarlo nella bibliografia dello scrittore. Nonostante tutto contiene alcuni riferimenti interessanti alla vita, ai gusti e alle abitudini dell’autore cubano esule a Londra. Non è neppure un libro uniforme, a metà strada tra la raccolta di saggi, collezione di articoli, insieme di racconti e spunti polemici. Un libro insolito che parla del successo epocale dei Beatles come di Corín Tellado nelle vesti di innocente pornografa, passando per il concorso dedicato a Miss Mondo, affrontando il ricordo della detenzione per aver pubblicato un racconto giudicato osceno dalla polizia segreta di Batista. Cabrera Infante descrive la figura di Lewis Carrol come se fosse un racconto poliziesco, scoprendo il nome dell’autore di Alice nel paese delle meraviglie solo nel rigo finale, quando cita l’epitaffio presente sulla tomba. O trova spazio anche per il cane Offenbach, dal talento musicale discutibile come il compositore tedesco dal quale prende il nome, racconta la canzone cubana come un grande momento di poesia popolare, ironizza su certi nomi di persona, lascia cadere opinioni frammentarie e discutibili, tesse le lodi di Londra e compone un’autobiografia sarcastica alla moda di Laurence Sterne. Soltanto il grande stile di Cabrera Infante rende il libro un corpus unitario, che rivela un modo di scrivere inconfondibile ispirato alla grande lezione di Raymond Queneau, una lezione di letteratura resa da uno scrittore che gioca con le parole come un esperto filologo.
A questo punto non resta che far parlare l’autore, immaginando di averlo ancora qui con noi, perché nessuno meglio di lui può raccontare alcuni passi salienti del libro.
I Beatles
I Beatles sono più popolari di Cristo, come ha detto una volta John Lennon, come è certo che wow è l’esclamazione perfetta, perché se la guardi allo specchio resta sempre wow. Persino Anthony Burgess scrive sui Beatles: per un gruppo così non sarebbe servito neppure l’inferno, era più che sufficiente essere loro stessi. Non credo che li abbia mai apprezzati, ma di sicuro ha intuito che dopo di loro tutto sarebbe stato decadenza, ché i Beatles hanno influenzato le mode, la musica, il taglio di capelli, il modo di vestire, insomma, la vita. Era il 1967 quando tutto è cambiato, dopo niente sarebbe più stato come prima. Il successo reclama altro successo e pretende nuove vittorie, ma quando si raggiunge l’apice del successo si avvertono i primi segnali di crisi. Inevitabile arriva il momento in cui comincia la discesa verso l’inferno. È successo anche ai Beatles e non soltanto a loro…
Corín Tellado
Corín Tellado c’è stato un momento della mia vita che non sapevo chi fosse. Pensavo a una cooperativa di scrittori nascosti dietro uno pseudonimo, pagati un tanto a pagina per confezionare romanzi rosa in serie. Un po’ più tardi ho capito che esisteva davvero, era la scrittrice spagnola più letta nel mondo di tutti i tempi, più famosa di Miguel de Cervantes che mi pare qualcosa abbia fatto per diffondere il castigliano. No, lei è meglio del padre della lingua, ché la leggono davvero tutti, persino le cameriere, le lavandaie, le sguattere, le signore che puliscono le scale, le ragazze che non si sono mai avvicinate a un romanzo e che non si sognerebbero di aprire un testo di letteratura. A Cuba ricordo che Vanidades, la rivista delle donne cubane, ospitava i suoi racconti e gli interminabili romanzi a puntate. Peripezie sentimentali per adolescenti sciocche, zitelle sentimentali e donne romantiche. Ho sempre pensato che Corín Tellado fosse un’innocente pornografa. Leggendo le sue storie troviamo vittime che finiscono per innamorasi degli aguzzini, incontriamo racconti di incesti, episodi di feticismo, abbiamo il masochismo come prova d’amore e il sadismo che genera attrazione erotica. Non ho mai capito perché si deve permettere a una ragazzina di 13 anni di leggere simile letteratura. La pornografia non è un crimine, è un’arte. Molte volte ho tentato di fare pornografia e non ci sono riuscito per mancanza di talento. Chiunque può scrivere ma un pornografo è un artista superiore. Sade, Pauline Réage e Corín Tellado lo sono. Joyce, Hemingway, Sartre non ce l’hanno fatta. Per questo mi dichiaro ammiratore di una scrittrice come Corín Tellado che possiede un’arte a me ignota, un talento sublime. La pornografia è un’arte innocente e incosciente e Corín Tellado è una scrittrice pura, primitiva, naif. I suoi lettori devono possedere identica innocenza per proseguire nella lettura, altrimenti si fermano come bloccati da un ostacolo insuperabile.
Il mio racconto osceno
Un giorno di ottobre del 1952 due agenti della polizia segreta vennero a bussare alla mia porta. Arrivarono a tarda sera, usando un sotterfugio. Prima erano andati alla redazione di Bohemia, la rivista più importante di Cuba e una delle migliori d’America. Avevo pubblicato sulle pagine di Bohemia un racconto che conteneva espressioni volgari in lingua inglese. I poliziotti chiesero dove potevano trovarmi, ma il capo redattore Antonio Ortega rivelò solo il mio numero di telefono, affermando che non conosceva l’indirizzo di casa mia. Pure la società telefonica non volle fornire indicazioni, il mio nome non era nell’elenco e i gestori si trinceravano dietro la tutela della privacy. A quel tempo Batista governava illegalmente e con metodi barbari, ma a Cuba non mancavano le garanzie democratiche. In ogni caso la polizia scoprì dove vivevo e quando arrivò mia madre voleva lanciarsi dal balcone mentre mio fratello mi accusava di essere innocente.
I poliziotti erano due tipi duri. Uno indossava una lunga guayabera bianca, sporca, che gli copriva i pantaloni beige, a righe verticali color cioccolato. L’altro aveva pantaloni grigi e camicia grigia con sopra un giacchetto di nailon azzurro scuro. Entrambi avevano un cappello. Mi portarono in un ufficio della polizia segreta, che al tempo aveva un nome chiaro: La Secreta. Mi presero le impronte digitali, mi tolsero la cintura, le stringhe delle scarpe e qualche centesimo che avevo in tasca. In una stanza oscura mi scattarono foto di profilo e in primo piano, come se fossi stato un vero delinquente. Mi fecero entrare in una cella affacciata su un cortile in cemento e dove potevo contare solo su un tavolo di legno e un secchio d’acqua collocato in un angolo. Tutto intorno si sentiva un gran puzzo di orina. Rimasi poco in quella cella, perché presto cominciò un lungo interrogatorio. Il poliziotto mi chiese perché avessi scritto una simile porcheria così zeppa di volgarità. Il racconto era intitolato Ballata del piombo e del ferro e non era così volgare, ma il poliziotto sembrava un critico letterario con il dente avvelenato. Risposi che non potevo vergognarmi di aver usato un linguaggio realistico, perché la natura dei personaggi lo esigeva. Non comprese. C’era da aspettarselo. Era proprio un poliziotto che non aveva niente in comune neppure con il peggior critico letterario.
Nel giorno del mio arresto, L’Avana era minacciata da un uragano, una sorta di tromba marina. Per proteggere il palazzo della Secreta inchiodavano porte e finestre, ma nessuno pensava a rendere sicura la mia cella da una pioggia abbondante che filtrava dal cortile scoperto. Per fortuna l’uragano cambiò direzione, altrimenti sarei affogato come un topo tra quelle quattro mura cadenti. I miei amici erano tutti fuori ad attendere il corso degli eventi, tra loro ricordo Carlos Franqui, Noa e Rine Leal, tutti confidavano in una sorte benigna. A un certo punto un poliziotto mi fece firmare un foglio, quindi mi vennero restituiti gli effetti personali e mi fecero uscire. Non mi portarono a casa mia al Vedado, come speravo, ma al tribunale d’urgenza dell’Avana Vecchia. La mia colpa era quella di aver scritto un racconto ritenuto osceno sulle colonne di Bohemia, un racconto che parlava di gangster politici che compivano un attentato contro un uomo sbagliato. Quel racconto l’ho pubblicato diversi anni dopo nel volume Così in pace come in guerra e non ha fatto paura a nessuno, non mi ha causato problemi.
Finito un incubo se ne sono aperti altri, purtroppo, ché dopo sono state molte le cose da temere, di tenore diverso, ma pur sempre crimini commessi con la penna e con il pensiero. Alla fine fui condannato a pagare 150 dollari di multa, pena che avrebbe dovuto insegnarmi a non fare più una cosa simile, una cifra che per me rappresentava una fortuna, visto che in tasca mi trovavo sì e no 60 pesos. Juan Blanco e Antonio Ortega fecero una colletta e riuscirono a pagare il dovuto, ma la pena più grande che nessuno riuscì ad alleviare fu l’ostracismo per due anni da ogni tipo di pubblicazione. Fui costretto ad abbandonare la scuola di giornalismo e venni condannato a non pubblicare articoli e racconti con il mio nome. Da qui prese il via la mia passione per gli pseudonimi e infatti ne ho usati molti nel corso della mia vita, pure quando non era necessario. Il primo - e proprio per questo il più amato - fu G. Caín, inventato componendo l’iniziale del nome e le prime sillabe dei due cognomi. Non avrebbero mai potuto farmi smettere di scrivere. Era la mia vita.
Il mio gatto Offenbach
Non avrei mai creduto di poter convivere con un gatto. Eppure è accaduto. Ho incontrato Offenbach e non l’ho più lasciato. Miriam Gómez aveva sempre desiderato possedere un gatto siamese fin dai tempi in cui vivevamo a Cuba, mentre le mie figlie - Anita e Carolina - non vedevano l’ora di avere un felino da coccolare. L’unico scettico in casa ero io, ma Offenbach mi conquistò. Pensare che da bambino, nelle campagne di Gibara, avevo avuto una jutia (un grosso roditore erbivoro che molti cubani mangiano) per compagna di giochi e avevo sempre provato disgusto per i gatti.
Offenbach si chiamava così perché nei primi giorni che stava in casa con noi era solito cantare, a volte lo faceva alle due del mattino e il suo canto era così poco melodioso da offendere Bach. Offenbach era anche un compositore tedesco naturalizzato francese, un autore così poco melodico che mi convinse a usare il suo nome per un gatto che cantava in maniera così sgraziata. Offenbach entrava in camera nostra e faceva rumori strani, lo calmavamo accarezzandolo, ma soltanto in un modo che ormai avevamo capito, facendo il solletico sotto il mento. Quando cambiammo casa contraddisse ogni teoria sui gatti, perché fu più felice di noi di vivere in un nuovo e più confortevole appartamento. Una vera e propria eccezione per un gatto che non poteva dirsi un felino come tanti: non si affezionava ai luoghi, alle mura, ma soltanto ai padroni. Offenbach aveva un solo padrone, ormai lo sapevo. Quel padrone ero io. E fui proprio io a decidere di castrarlo, per il suo bene, e anche per il nostro che dovevamo pur vivere in quella nuova casa. Fu in quella occasione che venimmo a sapere dal veterinario - uno in gamba che scriveva libri e pontificava sugli animali come un vero scienziato - che Offenbach era nipote di una gatta di proprietà di George Harrison, il musicista dei Beatles. Cosa pretendere di più? Il nostro gatto era quasi parente di uno tra i cantanti più famosi d’Inghilterra, che si esibiva nel complesso che aveva cambiato il modo di vivere. Castrammo Offenbach e lui rimase un gatto affettuoso, il suo solo cambiamento si manifestò nel rapporto con le gatte, tutto il resto rimase come prima. A mio parere lui si è sempre creduto un essere umano e non un gatto, forse aveva ragione Miriam Gómez quando lo chiamava un gatto animato, ricordando i gatti di Walt Disney. Un giorno portammo in casa un grande specchio e lui, curioso come tutti i gatti, non finiva più di giraci attorno, passava il tempo ad ammirarsi, come un novello Narciso innamorato della sua immagine. Offenbach era singolare anche nel modo di miagolare, perché lo modificava secondo ciò che doveva dire. La mia vita si può dividere in due fasi: prima e dopo Offenbach. Sono stati pochi i cambiamenti epocali della mia esistenza: mia moglie, le mie due figlie e Offenbach. Un cambiamento dovuto alla presenza di un gatto, però, non lo avrei mai immaginato.
Gordiano Lupi