Sia Tellus con le Autoantologie comprese nel volume, (e poi pubblicate nelle edizioni Tellus, vedi Gilberto Isella, Autoantologia, 2006;) sia Tellusfolio con l’Autoantologiaweb inaugurata da Marco Cipollini, permettono ai poeti italiani di proporre proprie scelte antologiche (eventualmente anche con brevi commenti) per ricavarne brevi profili e mettere a disposizione dei lettori testi altrimenti di difficile reperimento. Per gli studiosi poi, che indagano con la critica letteraria, la poesia contemporanea, questa sezione sarà un utile appiglio bibliografico. Marco Cipollini per le scelte biografiche rimanda al suo sito: www.webalice.it/marcocipollini. E altre notizie sull’autore si trovano in Arte e dintorni.
Empoli, 21 giugno 2006
Caro Claudio, tu mi hai aperto una porta e io vi sono irrotto… Mi avevi detto di inserire una decina di mie poesie per fornire un mio profilo. Ma che vuoi profilare? I versi che seguono, già tanti, non sono nemmeno un cinquecentesimo di quanto ho scritto e, come vedrai, ho dovuto tralasciare “Sirene”. Potresti accennare al poema dicendo che già ne riporti il primo canto nel tuo sito. Ho lasciato anche L’origine, Ninfale, ecc. ecc., e ancora ecc. ecc. Ho dato un po’ più di spazio a Rose d’eros, un libro ormai irraggiungibile, perché fu il mio esordio ed è pinato di ricordi. Non mi chiedere fotografie: ne hai già una. Altro materiale lo puoi cavare dal mio sito. Con affetto, Marco
Da Rose d’eros, Ed. Vallecchi, Firenze 1981.
Da INTROITO
I
Mai nel giardino dell’uomo possiate appassire,
ma sempre odoriate a chi un ignoto bene chiusi
urge i suoi giorni, e non vive e vorrebbe, e non muore e
vorrebbe, grazia misericorde in lui stillando
da paradisi altissimi, nuova tra le lacrime
bellezza alla pietà si arcobaleni, voi gemmee
piaghe, in bocca gli mutiate il sapore del pane.
II
Carte dimenticate anche per secoli siate,
purché un giorno, per caso, cada su voi uno sguardo,
e una mano si degni della polvere e sfogli
antiche sfogli passioni, ed un ciglio ne tremi,
un brusio come d’api dal suo cuore risorga.
Da GIORNI DELLA VITA DI MEZZO
22-1-73
Che sia contato proprio niente per te?
tra dieci trent’anni, già quasi una vecchia
se vivi, con la granata in mano, férmati
come a veder lontano un istante, rada
ravvìati una ciocca (fu ebano) e un sospiro
di rose ti risorga, un guizzo di sole
nei giorni tra la soglia e l’acquaio,
che or nella lieta vita febbre affilata
fosti, questa deserta notte, in qualcuno,
più neanche nome in te, turbato bisbìglio…
24,25-1-73
E il tempo, il tempo! Che farò a quei giorni?
Graffiata la fronte con unghie infette
gli anni, meno saprò anch’io sorridere,
sarò un uomo sempre stato nessuno,
allora, così ora, uno scontento…
Ma mia una cicatrice nella mente
rifinita da fisima di te,
grazia che avesti inusuale ai giorni
questi, questa che a te perso mi spinge
fingendoti, casta sera d’inverno…
Da CANTO CARNALE
Tu mihi sola places
Properzio
I
E senza te questi vivere giorni perséguiti
fisima non del delirio inappaga la piaga,
fulgida t’iniettasti in cupida cruna e rito
non v’è a parole a scioglierti dai nodi invisibili
sempre che straziano, viva ma gli occhi varcasti…
Ma voi non la vedete, io sì, lo vedo, muto
chiama alla mia notte perenne, oscuro risorge
il bello e gioioso animale, il cuore dilania
radioso di dolore, in un gorgóglio di luce
esultare io lo sento, naufraga nei silenzi…
Mai, ma più avversa, dà tregua, si abbevera avida
ai torrenti di sangue, questo il muto martirio,
sempre prederà me, inerme ella solo sorrida,
e lo spasimo schietto non lo tempera il tempo
e non la grazia, né una grazia, rosa d’inverno…
Su in luminoso sussurro sdipana il tuo cuore
una eco a filare nel labirinto effimero
luccichii in fondo al buio, scava abissi un sospiro
tenui eterni, perché dove io sarò, tu sarai
(mi piaci tu sola), sempre in te muoio, e risorgo.
ELEGIA SECONDA
Io non nacqui ananasso, ma cipolla
Luigi Settembrini
Mi chiamarono a sé bambinetto, mi tirarono
su le Muse, aurea istillandomi l’arte;
da allora le amai, con favole mi trastullavano;
poi, crescendo, ben ne conobbi l’affetto
severo, esclusivo, terribile il muto biasimo
poi che spartire altrui io osando il mio cuore.
E ora che il tempo è cinerea una veglia tra i sogni,
parlo con lingue di fuoco, ora è il tempo
del senno di poi, vano a ciò che fu o che sarà;
così, qui solo, mi ritrovo con voi
a smemorarmi degli anni una fola consunta,
spentesi stelle, sole che mai non sórse.
Figlio mi dico vostro, a voi obbedisco, e poi figlio
di questo decrepito evo; ma tale,
di mia madre e a mio padre, vollemi il novennale
amor loro, or è ventott’anni e son vecchi,
a essi il primo pensiero andrà sempre, sempre gli anni
rivedo che mi hanno essi dato in silenzio;
sì, ché la vita a me cara e straziante essi diedero,
un’unica vita a me solo; qua nacqui,
d’Arno tra i crudi colli; così, schietta e vivente,
la lingua atta ad opere belle e perenni
coi mali del vivere anche una sorte dettemi,
tale bene non tutti lo hanno, caro
come me stesso; senza, di mio che mai avrei?
[…]
Mai non lasciatemi, a me restate solo
mozze voi dolci voci dalla grata di tenebre,
null’altro, nel vasto silenzio d’istanti
tra un vacuo eterno e l’altro; altra voce non parla
a me di un dio senza maschera, voi prego:
io sempre vissi disperato, morirò certo
disperato, all’orlo dei miei giorni ultimi.
Da ELEGIA SETTIMA
[…]
Sì che l’anima, avida e stanca, seduta
sulle soglie carnali,
tra il giogo e l’esilio, più si morde le mani,
e una mano non ha
sulla spalla, nessuno cui dir sull’abisso
luminoso degli occhi:
“per te vissi, di più nulla potrei, di più
non è anche morire,
ma morirsi sarebbe alle tenebre tenere
te fra queste mie braccia
appassionata ogni avessimo bene avidi
e dolce pace e stessero
le stelle come eterne e l’alba immemorabile
sempre dimenticassimo,
e se questa l’ultima fosse delle notti
del mondo, io morirei”.
Da Emblemi, Quaderni di Erba d’Arno, Fucecchio (Fi) 1990.
INNO ALLA SIGNORA DELLE NOTTI
A Carlo Betocchi, che amò
e difese questa poesia.
Signora sulla guglia ardua dei giorni
vertigine dei giorni
non di pietra su pietra
ma voce viva ergersi
a te in consumazione,
qua l’ombra tua, sul fango.
Mite o Signora tra stellari ellissi
di nullità il tuo nimbo,
soffio sorgi aurorale,
zenitale tu abbacini
lo gnomone sul muro,
la penna al foglio, ferma.
Tu il cui volto è diamante e fissa il sole
mai non fissa la morte,
fasciata in carne e in ansia
d’ali è l’anima ossessa
a paradisi altissimi
ai tuoi occhi oh radiosa,
folle s’inarca a te, Signora, in vertici
spalancarsi di canto
icaria a te, precipite
(piovono piume nomi)
arcobalena abissi…
Piume a un mare silenzio.
E alisei tu sospiri ai miei orizzonti:
l’albero d’ossa abbatti
astioso al vento d’anni,
ramificata pena,
il fogliame carnale
più stormisce autunnale.
Come faro gli abissi silenzioso
consola, ai giorni sola,
è il tuo sole improvviso
sorriso che gli urlanti
al vuoto d’astri cielo
dolce squarcia marosi,
tu polena o Signora a questa nave
che tra scogliere grave
s’improra, più i frangenti
tormentosi martellan
melodiosi di morte:
sopra non si ribellano
ebbri i sensi d’orrore, esausti sensi
giù nel gurgite, e gli occhi
rotolano perlacei,
da corpi che medusano
tra ciechi mostri, avidi
a duomi buii… Sul fango.
E da scogli smaniose mani sforzale,
polipi più al dolore,
gòrdio nodo di brame,
i miei polmoni ammaina
gonfi di solitudine,
le morgane le sirti
misericorde un tuo gesto abolisca,
piega i miei piedi a te,
li trascinai ai deserti
processione di niente,
labirinto di pece
tenacemente a niente.
(Tace il mare, la furia: appari? Tace
il diapason dei polsi,
creduli, melodiosi,
violenti, più inermi
che un sognare sull’alba,
farsi, astri rari, alba…)
Signora, sola inaurori i miei ruderi,
cuore come una torre
tetragona, crollata…
Troppo tenne là ai venti,
troppo, ché la chiamava
la tua fanciulla.
Da Carmi profani, ed. Erba D’Arno Libri, Fucecchio (Fi) 1993.
(Comprende nove carmi.)
PARDES RIMMONIM
E presto io non sarò più…
Oh potessi rivederti
per una volta ancora,
come ricordo per l’aldilà
di questa vita!…
Izumi Shikibu
Oh cieche ombre, che avesti
di lacrimosa luce privilegio!
Lorenzo De’ Medici
I
In stille di fredda tristezza l’oscuro bosco
si dirada là al fondo come a un lume brumoso…
Vieni, è quella la casa cui anelasti sempre:
nella penombra l’umido splendore degli occhi
di lei da sempre attende che cigoli il cancello,
di sentire i tuoi passi sul vialetto di ghiaia…
Entra, già qui vivesti… Le cose che rivedi,
la porta che si schiude sul focolare acceso,
il cane là adagiato, la poltrona col libro,
vi restarono intatte… Che mai ti spinse a errare?
Ella solleva il capo dai ferri arguti e il riso
è al tuo cuore fuggiasco nido di madreperla,
un cantuccio scavato fra disastri di stelle…
(Ti ricordi la Voce? La marea degli affanni
da sponde carnali ritraesi, ti ergi su illesa
riva che, ormai disperata, affiorò all’orizzonte…
Questa terra è la vita, dei rottami dovunque
una reggia farete provvisoria per sempre…
Naufragare occorreva per destarsi nel sogno…
Altra Ilio non v’era, bastarono ai cantori
i peripli di Ulisse perpetui al fil di fumo,
e quanto fu cercato da lui, né altri ebbe,
solo brami, né Calipso, l’estrema lusinga…
Già degno del ritorno, lì da vent’anni un cane
per te, suo dio riapparso, cieco un’ultima volta
fiuta il fato: un guaito ti sia di compimento…)
Né più fino alla feccia ti ubriacherai di sogni,
da titano scrollando nei dormiveglia il mondo…
Ma aperto presso il fuoco ti attende il libro e splende,
parlare silenzioso con le voci di un tempo
e al tempo abbeverare l’anima caramente,
mentre fuori bufere vaneggiano obliose,
le diomedee lamentano i mai tornati eroi…
Ché gli esperidi frutti li coglie chi mai piega
la fronte da una vetta fra i nembi della mente:
lassù, dov’è la rosa che fu piaga mortale,
ove schiuso, ogni istante profumerà di cielo.
E con lei, quando sia, gli occhi spengere insieme,
ridestarsi con lei a un’alba nuova, lievi dove
l’ardua Voce promise: ti promise anche lei,
non ricordi?, e tenace la credevi morgana,
e la guardi e ti guarda, mai tu da lei diviso…
Dei giorni al lento, cuor mio, cedi precipitare,
ogni tramonto e aurora l’ultimo sia e la prima,
non un pegno qualunque hai dal tempo: quel sorriso,
come su acque serali magia di riflessi,
eco è di eterno sole. Ecco, mio cuore, è tutto.
II
Delle ore di miele, feccia nell’ombra d’oro
era un rauco disco, di resto dal cenciaio,
che tu ricanticchiavi spudorata e dolce
sopra il letto, a boccate beando un sigarillo,
“besame mucho”… Fra mutandine e dispense,
piatti libri frufrù, tazzine e fiori vizzi,
la caverna era nostra, ignoranti ci amammo
come pirati e razziate dame in calore
tra perle oro coralli, ignude di damaschi:
gaia sapienza che sedimenta una bibbia!
La dote, che pregna ci forzava le vesti,
dissipammo alla faccia dei preti e dei vecchi,
lupi noi mani e bocche sul gregge dei corpi,
goduria di peli, tenerume di rose
(tali, mai castità salmi infuse nel sangue):
benedetto il divieto ché accrebbe la gioia!
Ripeter qui le ingiurie vogliose, baciate?
Di noi il doppio canto di spremuti usignoli?
Dalle arnie in noi occulte i prodigati unguenti
che sui corpi spargevan congiunte carezze?
Né una pagina resta ai tarli del rimorso,
né un petalo da porvi in rimpianto, ché tutto
fu reso il nostro tempo incenso di sospiri…
La piuma al davanzale (arcangelo o piccione?)
spalancò sottilissimi in noi paradisi,
cigolò gelsomini il dischiuso corallo…
Radicherà il ricordo a me fin sotto terra.
Le calze ringuainasti, i riccioli allo specchio
Strigliavi… La tua voce, al pettine intrigato,
“besamem” si sospese: e fu il tuo odore eterno.
III
E passerai là davanti all’anonima scuola
in cui s’imperlò la tua vita: ala ti siano,
non più la gonna a tirarti, bambini ormai vizzi…
Fra scalpiccio e bisbigli, miti lacrime anche,
fino ai cipressi: sarò là ad aspettarti. Passi
da un mondo lontano, sul buio delle radici
busserà il feretro come un bruire di tuoni
che all’arido stringere annuncia grazia dal cielo,
passi diversi da quanti già udì la mia attesa…
Io, nel talamo sconsolato, mi si apriranno
le braccia, sussulterà ciò che resta del cuore,
brezza di gelsomini stormiranno le ossa,
e un eterno respirerò di te esaudimento…
Non dire, non aggiungere nulla al muto boato.
Là in piedi, la mia anima: oseremo guardarci?
A fresche plaghe andremo… Come allora, al mio braccio
dolce ti stringerai, di lacrime ormai incurante,
di quegli atei rimpianti, varcata ecco la soglia
più temuta, vuota… Sul molo ondoso dell’Alba,
vele ove al vento anime vanno eterno, cauti
moveremo noi i passi, io che ti attesi, uniti
camminando sui bordi di un oceano fosforeo,
diserta a vermi ed erbe la miniera dei corpi
il cui oro scavammo fino all’ultima vena.
Se un angelo pedante ci fermerà: “che piaghe
voi vantate, a pretender la faccia della Gloria?”
A farlo sorridente tu o io mormoreremo:
“tenue fu il merito nostro, ma brilla zecchino,
se fu per noi amore più di un delirio perbene,
se refrattari fummo alla nostalgia, stillante
di beltà tristi balsami, se un lume profondo
ci balenò dal venire-vanire dei giorni,
se sbadigliammo all’amara saggezza dei vecchi,
se il Nulla sprezzammo, addensato in forma di libro,
l’odio in forma di quiete…” Ma vorrà soppesare
lì i nostri cuori in mano: beati e affranti saremo
come al primo risveglio che ignudi ci guardammo…
Sì, di Questo, promessa fu ogni notte odorosa.
E sappi, né i nostri lenti anni né la porta
di marmo, mi tolsero la spina dalla mente:
che alla pietà del rito dei sospiri, negata
fu una creatura il cui riso la mia giovinezza
lampeggiasse alla tua solitudine… Abisso
le notti estreme… la dentiera sul comodino…
tu sola al buio, io solo nel giaciglio di ossa…
Ma di’: perché ci lamentammo se speravamo?
E come non sperare, noi che sempre ci amammo?
Nota
Il “bèsame-m[ucho]” trova un suo senso pregnante nel khol rashé besamin, del Cantico dei cantici – cioè le teste, il culmine di tutti i profumi – secondo le notazioni di Ceronetti. Pardes rimmonim è il giardino dei melograni.
Da Grandi carmi, Ed. Erba D’Arno Libri, Fucecchio (Fi) 1998.
(Comprende tre carmi: Labirinto, drammatico, di vv. 1369; La Passione, un carmen solutum, di vv. 1911; Sabbas, strofico, di vv. 1585.)
Da Labirinto, vv. 180-237 (Pasifae è qui la figlia, non la sposa, di Minosse):
ICARO
Lei in mezzo passando, abbatteva gli sguardi
come un vomere i fiori appena dischiusi…
Ma uno da me ne agognava il noncurante
profilo di Pasifàe!… Io lo compresi
da un lampo guizzato all’estremo suo ciglio,
che a me liquefece il midollo nell’ossa,
allora che il sangue eletto di Minosse
per corridoi infiniti, per sale ombrose
barbaglianti al riflesso dei suoi ricami
d’oro, trascorreva portata da un soffio,
lei i cui lunghi languidi occhi nessuno
d’un solo bearono sguardo… Andava,
bisbigliando alle donne sue Pasifàe,
dai loro circonfusa veli e sorrisi
come per tenüe nebbia se ne andava…
E passando trattennero un fresco riso;
mi occhieggiarono tutte, oh ma non lei,
ché indicibile ella procede, prodiga
di densi aromi come brezza serale:
dal silenzio si aurora e là nel silenzio
pari, non sai che guarda, va a un’immortale.
Dai lini esalava il suo incenso carnale,
ed io, che profondo aspirai, fui perduto,
dovetti appoggiarmi al diaframma di pietra.
E da sale, altre sale deserte, tinnule
echeggiavano risa, sì, anche le sue,
che udite mai furon da alcuno – fra sbarre
di rame, egualmente, la sola d’argento,
percossa, nell’aria ha più limpido squillo,
lo estingue la lontananza e lo purifica, –
trafissero, e impiagano ancora, il mio cuore…
Oh Pasifàe altocinta, tu il cui lentissimo
lembo scivolante sui marmorei intarsi
lambisce il mio cuore, consuma il mio cuore
come scoglio la blanda onda inesausta,
tu mi dài struggimento mortale quando
alla danza claustrale i tuoi veli eterei,
di aurei narcisi trapunti, nei molli
vortici estasian trascolorante l’aria,
e a te d’intorno lievi sull’erba ondeggiano
nobili vergini e la tua gloria cantano,
e il braccio alatamente sollevi, nudo,
bianco come avorio da poco intagliato,
e dal serto, che svetta nell’alta mano,
si scioglie una viola, e cade leggera
sull’oro antico della tua chioma, ordita
come un boccio sul collo che si distèla,
e fra i cercini e fra le ciocche a racimoli,
che vanno pian piano a disfarsi svolanti,
s’indugia, e cade ai piedi tuoi d’alabastro,
che d’erba hanno riflessi, in dolce martirio…
Pasifàe, tu che della rondine hai l’occhio,
radiosa cruna di abissi, oh non dirmi,
ma solo sospira al mio cavo sgomento
da quale segreta sorgente di sogni
zampillano gli atti di te inesplicabili
e belli oltre ogni dire, mentre la sera
e le ombre scendono e la luce lunare…
Da Trittico, Edizioni La Copia, Siena 2005.
OZIO ESTIVO
Per Adriano Fabris
La brezza, gli ombrelloni, frange smosse
quasi un rado preannuncio delle onde…
Nel prisma di solarità le cose
oscillano in apparenza di cose,
solide in sé ma forse inesistenti:
il passero che becca fra le sdraio,
ripetendosi, il passero che becca
fra le sdraio, che becca fra le sdraio…
le alfabetiche ombre sulla sabbia
stirata a nuovo fanno un piatto enigma…
la bandiera del bagno sventolante
VITTORIA su un deserto di battaglie…
Tutto appare e non è, non è ed appare
nel silenzio stentoreo della luce,
un pulsare di attimi-ombrelloni,
milioni di è-non-è, onde su onde,
è-non-è come sabbia l’universo,
granelli-istanti, un tutto di granelli,
e un puntiforme traboccante io-vuoto
ne vorrebbe incrunare unico il filo,
semplicissimo fino al disumano
come la linea che recide il mare
blu dal celeste tenero del cielo,
e basterebbe un battito di ciglia
in cui cose e esistenze, percepite
fugevolmente come un sogno esatto,
fossero sillabate dalla brezza
in creazione perpetua, mai abolito
l’istante dall’istante, ma il fluire
immobile di un essere perenne,
unica cosa, la mente e la cosa,
puntiforme, infinita, luminosa,
trascorresse come voce onduosa
su la spiaggia la sabbia ogni granello,
illuso cangiamento di un istante
fuori del tempo, e il tempo fosse questa
sfericità fugevole ed eterna
di questa ovunque luce, scintillante
dalle onde che parlano di onde,
che parlano di onde, onde su onde,
in questa sonnolenza di ombrelloni.
CIELO STELLATO
Novilunio di settembre, in aperta campagna.
…fila
luce, fila anni luce misteriosi,
fila un solo destino in molte guise,
dice: “guardami, sono la tua stella”…
Mario Luzi
A Dilvo Lotti
Guardo il Sole che scende dietro i colli,
e non vedo il tramonto ma il ricordo
del tramonto che vedo, se il barbàglio
estremo lo ha assorbito l’orizzonte
già da otto minuti, e dunque è notte,
ma notte ancora non vedono gli occhi.
La forza che sostenne l’ampio giorno
lascia i convessi argini del mondo,
e il crepuscolo esala dalle erbe,
dagli anfratti, dai campi, dai declivi
dei monti con le cime imporporate,
da sotto terra evaporante, ovunque
sale nebbia di tenebre e ci ruba
prima i cari colori, e poi i contorni,
e i nomi delle cose, ormai ridotte
a degli immemori tizzoni spenti,
come marea melmosa sommergesse
le sponde razionali della mente.
Ecco, nell’universa sospensione
fra il tempo degli atti e il tempo dei sogni,
Espero sgorga, solissima luce.
È quiete ovunque, quiete e solitudine,
più non canta non vola più alcun’ala,
solo sghemba nell’ombre il vipistrello,
e in cielo, che si fa concavo azzurro,
abissalmente azzurro di silenzio,
spuntano come chiodi luminosi,
ad una ad una, qua e là le stelle,
le esperidi irraggiungibili stelle…
Finché sopra la cieca buia crosta
della terra – sollevo i dilatati
occhi di sete − sconfinatamente
sta di gemmei arcipelaghi un oceano:
milioni di lucenti aghi convergono
s’incrunano nell’iride che fissa
la faccia assente dell’Eternità…
L’Eternità, di fronte a occhi mortali.
Ma l’algida gloria della galassia
non è che il drappo funebre disteso
sempre di più sul creato dal Tempo,
che di emblemi fatali lo ricama,
stella prossima a stella eppur lontana,
e la luce di quelle più remote
varca abissi del nulla da millenni
per queste ciglia sfiorare e smarrirsi
per millenni là al nulla degli abissi,
e in quell’istante “guardami” sussurra,
“guardami” da millenni, e ogni brillio
è un’età della cosmica caverna
che trasuda, goccia a goccia ogni notte,
lentissime stalattiti di luce…
Tra quel vivo limio di lumi, quanti
non conterebbe intera avida vita,
come tra sparso argento un falso conio
astri scintillano che più non sono
e la cui luce ossea lascia dietro
di sé deflagrazione tanto immane
che stupirà una notte accorse genti,
e da ere il prodigio è forse estinto.
Ma nulla che si vede è in sé la cosa,
solo una percezione possediamo
che da quella si stacca poco o tanto
se è rugiada o se è stella, eppure sempre
incolmabile cuna d’illusione.
Non penetrano gli occhi il mondo esterno,
un vacuum incolore, più abissale
di quanto appare, ché la mente astringe
lo spazio spalancatosi allo sguardo
per farlo più a sé stessa specchio umano.
Così è dogma alle mani di toccare
solida e vera la mater materia,
e invece anch’esse toccano la mente,
non il piede ma l’orma, e tutto sfugge
dalla sua concretezza e si fa ombra…
Noi vediamo, realmente, non le stelle,
ma quanto con veloci ali la luce
reca a noi di quei mondi, che nell’erebo
sprofondano del nulla inconsolabile…
L’urania emanazione ci consegna
un purissimo enigma che i carnali
prismi piaga di nostalgia infinita,
per cui brillano, anch’essi, di fraterna
alterità alla volta zodiacale:
sopra di me, al suo centro, si dilata
illimitata di costellazioni,
eppure tutta la scrigna il mio cranio
che proietta lassù memori luci,
ma lassù è solo un punto della mente,
ché il vedere e il pensiero della cosa
son la stessa sostanza della cosa,
e io sono dovunque erra il mio sguardo
in cerca di non so che estremo approdo.
Oh stelle, stelle, perdute per sempre…
Ma sarete finché vi brami un uomo,
anche solo fantasmi luccicanti
il cui presente è altrove, inafferrabile,
ché tutto quanto è nei nostri orizzonti
vive visibilmente nel passato,
nel non essere più sta la sua essenza…
Ma io vi guardo, o luci primordiali,
e tutto il Tempo è in me, nel vivo istante
di un battito di ciglia io sono eterno.
AL SIGNORE DEL POZZO
Il tuo nome è impronunciabile. Osceno.
Ma è inutile pregarti, sei lontano
oltre mille galassie, più lontano,
nelle estreme profondità del cuore…
il mio cuore è un abisso i cui confini
precipitano oltre il primo ricordo…
oltre il primo vagito è già un abisso!…
Se ti rivolgo parole inceppate,
forse mi ascolti e nulla può sfuggirti,
ma in risposta non odo che un fruscio,
la sensazione di chi è spiato,
e forse è solo la smania di udire…
Se tu sei l’essere assoluto, allora
io che patisco la tua enorme assenza
sono io a non esistere, io un sogno
sfibrato fra i tuoi cigli lì ad aprirsi,
e sarà l’abbagliamento il mio nulla.
Se sono un’ombra, un ritaglio di niente
che scivola sul selciato dei giorni,
l’ombra di chi sono? <Sono> può dirlo
un’ombra? Oh vivere si può di avido
continuo scontento? Ma se feroce
sete mi piaga, acqua, devi esserci!
Dalla cisterna buia, vuota e buia,
mai mi consola sillaba di luce…
Veder potessi, o pozzo, in te riflesso
come in pupilla il mio volto remoto,
o anche una stella dall’oscuro baratro
su me incombente, e così essere certo
che il vuoto nero, in cui mi sporgo e tremo,
è pur qualcosa laggiù, non è il nulla!
Ma se lascio cadere nel tuo fondo
un grido di pietà, tutto è silenzio.
Dalla tua eternità perfetta (dunque
perché mi generasti?) fa’ una volta
che salga a me non la tua voce, quale
descrisse chi la udì dolce e terribile,
ma del mio chiedere l’eco stremata
dai confini deserti e indifferenti
dell’universo. Ed io saprò che esisto.