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Il teatro di Lessing: un invito alla ragionevolezza e alla tolleranza 
di Gabriella Rovagnati
13 Marzo 2011
 

Un’indomita ricerca della verità e una strenua difesa della libertà e dell’indipendenza dello spirito caratterizzarono il percorso umano, critico e creativo di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781). Figlio di un pastore protestante, Lessing nacque a Kamenz, in Sassonia, nel 1729, ma fin da giovane, nonostante la rigida educazione religiosa ricevuta in famiglia, si confrontò con i vari movimenti di pensiero laici e libertari dell’epoca dei lumi. Iscrittosi alla facoltà di teologia dell’università di Lipsia, interruppe gli studi, attratto soprattutto dalla letteratura e dal teatro.

Divenne un assiduo frequentatore di attori e palcoscenici, acquisendo le conoscenze che sarebbero state essenziali per la sua opera di critico e di innovatore della scena tedesca. Attivo giornalista a Berlino, strinse amicizia con il libraio illuminato Nicolai e con il filosofo ebreo Moses Mendelssohn, assumendo posizioni coraggiosamente filosemitiche già nel dramma giovanile Die Juden (Gli ebrei, 1749). Intellettuale acuto e perspicace, Lessing si dedicò con passione all’indagine dell’estetica letteraria contemporanea e, riguardo al teatro, si schierò contro quanti predicavano l’imitazione dei classici francesi, contrapponendo a Corneille e Racine il modello di Shakespeare.

Fondamentale fu per Lessing l’esperienza biennale (1767-69) che lo vide “Dramaturg” presso il teatro nazionale di Amburgo, di cui commentò programmi e attività in una serie di recensioni e scritti critici, riuniti con il titolo Hamburgische Dramaturgie (Drammaturgia di Amburgo, 1769). Elaborò così una personalissima estetica teatrale, che considerava fondamentale il criterio di “plausibilità” delle vicende rappresentate e dei personaggi, nei quali lo spettatore doveva potersi immedesimare per correggersi e migliorare se stesso. Il fallimento del teatro costrinse però Lessing ad accettare, nel 1770, l’incarico di bibliotecario presso il conte di Braunschweig a Wolfenbüttel.

Qui Lessing continuò la propria fertile opera intellettuale, affiancando come sempre all’attività saggistica la stesura di testi teatrali, finalizzati a tradurre nella prassi scenica le sue convinzioni teoriche. Colpito da gravi lutti familiari - la morte dell'unico figlio e della moglie - e dalla malattia, si spense a Braunschweig nel 1781.

Grande critico, teorico e drammaturgo, Lessing fu un radicale innovatore delle scene tedesche e viene considerato il fondatore del teatro borghese, perché nei suoi scritti e nei suoi testi si fece portavoce di una nuova morale, basata sulla misura, la tolleranza, il buon senso.

Con il copione in cinque atti Minna von Barnhelm oder Das Soldatenglück [M. v. B. ovvero la felicità del militare, 1767] Lessing liberò il genere comico di alcuni elementi schematici, fondando una commedia che non derideva più soltanto gli esponenti delle classi sociali inferiori, ma anche i borghesi e persino i nobili. La nuova “commedia borghese” non solo osava sbeffeggiare esponenti dei ceti superiori, ma si proponeva anche di diffondere i valori nuovi di una neonata borghesia, la cui dirittura morale e il cui senso di giustizia avrebbero finito per trionfare.

A sei mesi dalla fine della Guerra dei Sette Anni fra Prussia e Sassonia (1756–1763), il maggiore prussiano Tellheim è ospite di una locanda berlinese insieme al suo attendente Just. Ridotto in povertà e dimesso dall’esercito con il sospetto di aver sottratto del denaro dalle casse dello stato, Tellheim ha rotto il proprio fidanzamento con la nobildonna sassone Minna v. Barnhelm per non coinvolgerla nel proprio disonore. Minna però, accompagnata alla sua damigella Franziska, scende nella stessa locanda in cui alloggia il maggiore e tenta di riconquistarlo, ridicolizzando la sua inflessibilità di ufficiale. Dopo alterne vicende che sembrano impedire la riconciliazione dei due innamorati, Tellheim viene riconosciuto innocente e riabilitato pubblicamente: alla fine tutti i malintesi vengono chiariti e i due possono convolare a giuste nozze.

La tragedia più nota di Lessing è Emilia Galotti (1772), che, suddivisa in cinque atti, riprende un episodio tratto dalla Storia di Roma di Tito Livio, dove si narra della giovane Virgina, che il padre uccide per salvarne l’onore, messo in pericolo dalla corte assidua che alla ragazza fa il decemviro Appio Claudio. La morte della giovinetta scatena una rivolta popolare. Riprendendo l’episodio, Lessing eliminò l’aspetto collettivo della vicenda e concentrò tutta la sua attenzione sulla giovane vergine, il cui onore, per suo padre, è più importante della sua stessa vita. Nonostante questa privatizzazione della tragedia rispetto al modello, Emilia Galotti è un’esplicita accusa contro l’assolutismo politico e contro una gestione del potere fondata solo sull’arbitrio, a cui Lessing chiamava a tener testa il ceto borghese che si doveva proporre come nuova classe moralizzatrice.

Il principe di Guastalla s’allontana dalla propria amante, la contessa Orsina, non appena vede Emilia Galotti, una giovane borghese che sta per andare in moglie al conte Appiani. Poiché un primo tentativo di rinviare le nozze, mandando in missione all’estero il promesso sposo, non gli riesce, il principe, sostenuto dell’intrigante Marinelli, fa rapire Emilia dalla carrozza che la sta portando all’altare. Nell’assalto, Appiani è ferito gravemente, mentre Emilia e sua madre vengono portate in un castello, dove le attende il principe, pronto a far credere alle signore che ad aggredirle siano stati dei briganti. Emilia, alla quale il principe ha dichiarato il suo amore quella stessa mattina in chiesa, rimane sconvolta, mentre sua madre capisce quale sia la verità sul rapimento. Il severo Odoardo Galotti raggiunge moglie e figlia al castello, dove Orsina, offesa, lo informa della morte di Appiani e gli mette in mano il proprio pugnale onde uccida il principe, vendicando così il genero e la figlia. Odoardo non vuole macchiarsi d’assassinio e vuole portare Emilia in convento; ma la ragazza prega il padre di cedere a lei il pugnale per togliersi la vita.

Un autentico inno alla reciproca comprensione e tolleranza è poi l’ultimo lavoro teatrale di Lessing, Nathan der Weise (Nathan il saggio, 1779), in cui si auspica la conciliazione, la fratellanza e il trionfo di un umanesimo universale. Lessing, che in precedenza aveva scelto per il suo teatro una prosa chiara, semplice ed essenziale, nell’ultima opera riprese il Blankvers (verso composto da cinque giambi) del teatro inglese, che da allora divenne il metro più comunemente usato anche nel teatro tedesco.

L’azione dei cinque atti di questo “poema drammatico” si svolge al tempo delle crociate a Gerusalemme, luogo d’incrocio di ebraismo, cristianesimo e islam. Rientrando da un viaggio d’affari, il ricco ebreo Nathan viene a sapere che sua figlia Recha è appena stata salvata dalle fiamme da un giovane templare cristiano, a sua volta appena graziato dalla pena di morte dal sultano islamico Saladino, perché il giovane cavaliere gli aveva ricordato il proprio fratello defunto. Nathan è uno spirito illuminato, e quando il Saladino gli chiede quale sia la vera religione, l’ebro gli risponde con la famosa parabola degli anelli ripresa dal Decameron (3ª novella della prima giornata) di Boccaccio:

 

Molti anni or sono vivea in Oriente un uomo,

Che un anello d’assai grande valore

Da cara mano ereditato aveva.

La pietra, un opale dai bei riflessi,

Questa arcana forza possedeva:

Gradito agli uomini ed a Dio rendeva

Colui che in tal fiducia l’indossava.

Non sorprende che quell’uomo in Oriente

Mai dal dito lo sfilasse e disponesse,

Che quell’anello in casa sua sempre restasse.

Vale a dire, agì così. Lasciò l’anello

Al più amato dei suoi figlioli tutti;

E stabilì che costui a sua volta

A quello dei suoi figli lo passasse,

Che a lui era più caro; sì che sempre

Il più amato, solo in virtù dell’anello,

Il capo fosse, il primo del casato. –

[...]

Di figlio in figlio così quell’anello

Giunse alla fine al padre di tre figli,

Che gli eran tutti ugualmente devoti,

E che lui perciò ugualmente di amare

Non poteva far a meno. Solo ogni

Tanto or questo, or quello, or l’altro ancora

Quando si trovava con lui soltanto

E con gli altri due il suo cuor non divideva,

Più degno dell’anello gli sembrava;

Ebbe così anche la debolezza

Di prometterlo a ciascuno dei tre.

Le cose procedettero così. – Ma,

Vicino alla morte, quel buon padre

Si trovò in un bell’impaccio. Gli doleva

D’umiliare due dei figli che s’eran

Fidati della sua parola. - Ebbene? -

Un orafo in segreto fece chiamare

Al quale sul modello del suo anello,

Altri due ne ordinò, aggiungendo

Né sforzi né denaro di risparmiare,

Purché perfettamente identici fossero.

Quando l’artista gli anelli riportò,

Nemmeno il padre riconoscer poté

L’anello ceduto per modello. Allora

Chiamò i suoi figli separatamente;

A ognuno diede la sua benedizione -

Ed il suo anello e poi spirò. – [...]

(trad. di G. R.)

 

L’assunto è che ogni religione è da considerare autentica, se si distingue per la propria umanità. Alla fine del dramma Recha, orfana adottata da Nathan, si rivela essere la sorella del templare, che a sua volta viene riconosciuto come figlio del fratello defunto del Saladino. Tutto si conclude in una conciliazione generale.

Il dramma è l’esemplificazione teatrale del pensiero espresso da Lessing nello scritto Über die Erziehung des Menschengeschlechts [Sull’educazione del genere umano, 1777], secondo il quale le verità rivelate vanno trasformate in verità di ragione, le sole che permetteranno all’uomo di pervenire al “tempo della perfezione”, in cui “l’uomo farà il bene, perché è il bene”.

Nathan il saggio, che, pur essendo stato scritto oltre duecento anni fa, tocca un problema più che mai d’attualità, sarà in scena prossimamente al Piccolo Teatro di Milano.

 

 

Per saperne di più:

qui e, per “I giovedì degli Amici del Piccolo”,

incontro del 24 marzo (locandina allegata)


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