Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante in un liceo nei pressi di Torino, ha appena pubblicato per i tipi di Guanda, un saggio provocatorio sulla scuola dal titolo Togliamo il disturbo: sulla libertà di non studiare. L’autrice fa riferimento alla scuola italiana, tuttavia il lettore sensibile ai problemi della formazione e dell’educazione dei giovani, non può rimanere indifferente di fronte ad alcune analogie con la realtà locale. La globalizzazione si è infatti infiltrata da tempo nel modo con il quale gli attori principali dell’universo scolastico danno e ricevono il sapere, la conoscenza, l’educazione: la famiglia, il docente e lo studente di 50 anni fa (dico una banalità) agivano in un contesto ben diverso, dove i margini di libertà erano più limitati, dove alcuni punti di riferimento parevano solidi come pilastri di un edificio incrollabile. E invece, secondo Paola Mastrocola, il ’68, Don Milani e altri importanti rivoluzionari, favorevoli alla democratizzazione della cultura e all’istruzione delle masse povere, sembra abbiano contribuito, a causa di qualche grave malinteso, a rendere molto fragile il sistema.
La scuola di oggi è in ritardo.
La scuola non ha le risorse per essere ai passi con i tempi.
La scuola non ha più senso di esistere, concepita come luogo in cui si trasmettono il sapere, le nozioni.
Quindi Togliamo il disturbo…
Ecco perché il libro di Paola Mastrocola è provocatorio. L’autrice e insegnante scrive anche delle verità scomode. Si chiede come possa, un docente, insegnare Torquato Tasso, in un contesto in cui nessuno crede più che Torquato Tasso serva a qualcosa. Ma soprattutto (me lo chiedo pure io) come insegnare la letteratura e in generale la cultura umanistica, in una realtà nella quale ciò che si apprende deve essere utile, traducibile in un saper fare, spendibile come punti cumulus armonizzati?
È come se la cultura dei giovani, strettamente connessa con l’esterno delle mura scolastiche, nella dimensione caotica del marketing, delle parole urlate, degli insulti facili e mediatizzati, sia in netto contrasto con la cultura della scuola, dove l’apprendimento richiede presenza e lentezza. «La scuola è vecchia perché si basa ancora sullo studio: Si prende un libro, si legge, si studia e alla fine, con più o meno fatica, si sa. Un libro è un testo scritto, la scrittura è fatta di parole, le parole sono simboli, quindi leggere e studiare sono attività che richiedono una forte dose di astrazione», scrive l’autrice (p. 74).
Un mio amico attore di Milano è intervenuto in un brevissimo dibattito lanciato su su Facebook, dove avevo segnalato l’intervista a Mastrocola, curata da Fazio. Mi ha scritto: «Ad ogni modo, visto che la letteratura non è COOL e gli scolari non la vogliono studiare; che siano allora gli insegnanti a studiare. Si fanno un bel corso di marketing ...e imparano a vendere meglio il prodotto. Io ho cominciato ad apprezzare la letteratura in tarda età perché in gioventù mi è stata venduta male».
È proprio questo il problema che solleva Mastrocola, caro amico attore: non è la conoscenza, il sapere, che conta, ma il saper vendere. Il saper vendere qualcosa che sia misurabile. Non è una questione di “sola” letteratura, perché il discorso si allarga a tutte le discipline che apparentemente non sono immediatamente spendibili! E qui, la scuola “tradizionale” stride contro il marketing che vuole calcolare il rendimento effettivo di ciò che si sa. E invece è una questione di educazione alla fatica!
«Anche se per diventare “qualcuno” spesso non bisogna fare fatica, guardi tutti gli esempi, per esempio…» mi dice un mio allievo, Simone, elencando una serie di personaggi che qui non ripeto.
E ancora:
«Sapesse, il mio Sebastiano che meraviglia!» dice una mamma alla prof. Mastrocola, durante un colloquio post natalizio. «Noi due, mio marito ed io, siamo solo stati capaci di aprire lo scatolone e togliere l’imballaggio, Sabastiano invece, avesse visto!, in tre secondi frin fran, tutto acceso perfetto, e come funzionava!».
Sebastiano ha ricevuto un mega computer per Natale.
Ma ha un 3 in italiano.
La vera scommessa per la scuola ticinese, immersa anch’essa in un contesto in cui i margini di libertà sono notevolmente aumentati, è quella di non perdere quei punti di riferimento validi che contribuiscono allo sviluppo, bisognoso di lentezza e fatica, di individui preparati, magari anche culturalmente (il sapere per sapere). Nello stesso tempo, siamo chiamati a rispondere ai bisogni di una fetta di adolescenti a disagio, ragazzi che hanno perso non solo il riferimento al sapere, ma anche quello emotivo. Di fronte a tutto questo, per riprendere l’osservazione dell’amico attore, i docenti insegnano e trasmettono e studiano e imparano insegnando ed entrano in relazione, in una sfida quotidiana di notevole spessore, che inizia a settembre e finisce a giugno. E poi si documentano in un tempo di riflessioni e letture ai quali bisogna lasciare spazio.
Gli insegnanti italiani sono messi male.
Noi, in Svizzera… non ancora così…
Daniele Dell’Agnola