I passi dei Queer conducono necessariamente al mare.
Lì, sulle spiagge, sono visibili i segni del loro passaggio; impronte poco marcate che appartengono a creature in fuga.
Perlustrando il bagnasciuga disseminato di conchiglie si ha tuttavia l’occasione di fare scoperte interessanti. In alcuni punti della spiaggia infatti, senza che seguano un ordine preciso, le impronte si fanno più marcate, quasi che i queer abbiano deciso, sulla spinta di un segreto accordo, di affondare il piede nella sabbia e di calcarlo con forza prima che l’acqua ne dissolva il segno.
Questo premere il calcagno sulla sabbia bagnata ha forse un significato?
Un’altra osservazione che incuriosisce è la quantità d’impronte che sono state lasciate. Non si ha memoria di un altro tempo nel quale le loro tracce fossero state altrettanto numerose. Sono così tante che risulta poco leggibile la direzione verso la quale muovono. In altre parole, quei passi conducono al mare o, al contrario, ne stanno emergendo?
La domanda non è di poco conto perché nel primo caso i queer non fanno che ripetere un antico percorso di nascondimento. Nel secondo caso invece, qualora le tracce siano dirette verso il mondo di superficie, le cose cambiano di molto il loro significato.
Risoluti a non considerarsi più abbozzi di esistenze, corpi indeterminati (iperìon), i queer osano un azzardo con cui in tempi meno recenti mai si sarebbero potuti misurare.
Pongono un paio di domande essenziali: sono io un essere umano, e se sì, di che genere?
E poiché il primo quesito si risolve necessariamente in una risposta positiva, rimane da risolvere quello sul genere e di conseguenza sull’origine.
Dove risiede l’origine dei queer?
«Queer, checca, frocio, deviato. Parole che bruciano come napalm su quei corpi che non possono/vogliono nascondere le proprie differenze e i propri desideri. Corpi sbagliati, corpi schierati che fanno delle vie di fuga dalla logica bipolare, lo strumento di cambiamento reale e radicale dello “stato” di cose esistenti. Self made bodies, corpi eccentrici, come ex-centrum, linee di fuga dalle norme sociali di genere che definiscono storicamente l’essere umani…». (cit. da “Supplemento libri”, quotidiano Liberazione, 19 febbraio 2007, F. Warbear; M. Palmieri).
Corpi ex-centrum.
Corpi indeterminati: iperìon.
Con le creature acquatiche i queer hanno in comune una parentela che essi riconoscono per semplice empatia. Difficile scorgerli alla luce diretta del sole.
Al pari delle creature acquatiche, il loro astro d’elezione è la luna. Grazie alla luna e alla notte hanno potuto sopravvivere e crescere malgrado l’alto numero di vittime che tra le loro schiere si possono contare.
Dove risiede l’origine dei queer?
Alla parola origine si associa sempre una matrice a cui quell’origine si fa risalire. Una madre originaria dalla quale discende una stirpe. Qual è il suo nome? E soprattutto ha un volto nel quale riconoscersi?
A questi quesiti la Storia è riluttante a rispondere. I mezzi d’indagine non glielo consentono. Occorre rivolgersi ad un altro genere di narrazione che non garantisce risposte certe, posto che la Storia, a differenza della fiaba o del mito, sia in grado di darne.
Il mito è la narrazione che più si conforma a questo quesito d’ improbabile soluzione. E tuttavia è forse opportuno dargli ascolto se non altro perché il mito ha con la storia una stretta parentela di tragedia e di sangue.
Scrive Maria Zambrano in Chiari di Bosco:
«La testa di Medusa cadde alla fine sotto la spada di Perseo. Aveva forse corpo? Non doveva essere un corpo di carne nemmeno del genere dei corpi degli esseri marini. Dal suo “sangue” nacque Crisaore, un essere d’oro, come indica il suo nome, un cavaliere. E il cavallo alato, Pegaso.
Non erano propriamente della Terra. La promessa di questa strana creatura annunciava forse un altro regno nel quale sarebbe sussistito qualcosa del mare, o forse no, se per mare s’intende l’abisso nel quale la vita custodisce i germi, embrioni, abbozzi di creature ancora ingenerate, e in cui dimorano insieme quelle impossibilitate a nascere, almeno in questo ordine di tempo».
Il mito accoglie in eguale misura, verità e inganno. Occorre interrogarlo senza lasciarsi fuorviare dai suoi giochi di enigmistica , allo scopo di condurre a fondo l’indagine.
Abbiamo una vittima, Medusa; un assassino, Perseo e un mandante.
Un mandante deve necessariamente esservi poiché Perseo, da come il mito lascia appena intuire, non doveva essere un personaggio troppo sveglio. Abile con la spada, lo era di sicuro. Ma i suoi predecessori, quelli che avevano osato, senza riuscirvi, di portare a casa la testa mozzata di Medusa, avevano incontrato una fine orribile. Lei li aveva pietrificati nell’istante stesso in cui avevano sfiorato con lo sguardo la sua immagine.
Il mito descrive Perseo come una figura d’eroe coraggioso. Non dice che era bello, lo lascia intendere. D’altronde un eroe è bello per elezione. Quel che più conta però, in questa circostanza narrativa, non è tanto la sua bellezza, quanto la sua acutezza. Era intelligente Perseo?
In quest’ultimo caso il mito, prudentemente, tace.
Dai tempi più remoti, qualora le circostanze lo richiedano, un killer prezzolato, diviene per incanto un eroe. Perseo aveva la spada e la sapeva usare. Ma sarebbe stata un oggetto innocuo al cospetto di Medusa, un attrezzo da giardinaggio, un giocattolo di latta, qualora Atena non avesse posto nelle sue mani un’arma assai più micidiale della spada. Uno specchio. Atena, saggia e astuta, uccello e serpente, scelse Perseo per togliere di mezzo una volta per tutte, la tremenda rivale.
Sorge un dubbio: la dea si limitò a porgere le sue direttive all’eroe che le eseguì senza esitare oppure fu costretta a faticare perché nella zucca del suo pupillo non vi fosse confusione sul fatto che non la spada ma lo specchio l’avrebbe protetto da una fine spaventosa? Avrà dovuto, quella figura eccelsa, abbassarsi al livello del suo eletto e “far lezione”, con la pazienza di una maestrina con un alunno un po’ tonto, perché egli capisse bene come agire davanti alla temibile nemica?
Illazioni. Tutte illazioni.
Nel caso in cui Perseo, l’atletico giovanotto, non avesse ben compreso il sottile espediente dello specchio, la dea, nella sua regalità, sarebbe ricorsa alle maniere spicce:
“Basta fare domande sul come e sul perché!”, avrebbe detto, “ubbidisci e taci. Non guardare Medusa direttamente negli occhi, ma osservane l’immagine riflessa nello specchio che porterai con te. Solo in questo modo potrai mozzarle la testa e divenire quella figura di eroe cui tanto aspiri.
“Quanto alla preda”, avrebbe proseguito la dea, “la sua testa mozzata la consegnerai a me poiché mi spetta di diritto. Io l’affiggerò sul mio scudo come trofeo e come monito. La gloria dell’impresa invece la lascerò tutta a te, figlio eletto”.
Medusa, la rivale di Atena è annientata.
Atena ha vinto.
Questa vittoria suscita una nuova domanda: per quale ragione, Atena, la figura più potente dell’Olimpo, dopo Zeus, ne esigeva la fine, con tanta spietata determinazione?
Scrive Maria Zambrano:
«…Dalla stirpe del dio delle acque insondabili, Poisedone, la Medusa era la sola bella tra le sue sorelle, l’unica giovane di quella famiglia delle “Graie”. Ma la minaccia più grave per Atena era la promessa che Medusa avrebbe concepito col suo avo e re un figlio nel quale quella stirpe nemica si sarebbe di certo compiutamente manifestata; e non tanto perché lo fosse di per sé, ma semplicemente in quanto riguardante l’altra progenie, quella del fratello di Zeus».
E ancora:
«Ella, Atena, non poteva, vergine per essenza e prestigio, concepire un figlio che proseguisse in linea diretta la stirpe di Zeus, attraverso la più sua di tutti i suoi rampolli. Creatura d’elezione, Atena, era forse promessa a un’altra forma, non realizzata di concezione, magari la concezione intellettuale?
E Atena consegna a Perseo non la spada, ma lo specchio, perché l’eroe possa guardare di riflesso la bellezza ambigua, annunciatrice del frutto finale dell’Oceano insondabile…
…La Medusa era chiaramente uno scudo del regno insondabile dell’oceano. E quando la incorporò al suo, di scudo, Atena lo sapeva bene. Strappata al suo regno sullo scudo della vittoria era forse un semplice trofeo. E un monito senza alcun dubbio, un monito dell’esistenza di un altro regno. Del regno abitato da creature nate a metà o di nascita impossibile, da sotto-esseri dotati di una vita illimitata, di avidità infinita e di remota, enigmatica finalità.
Ci propone, ci offre, lo specchio di Atena un modo di vedere, un mezzo adatto a uno degli aspetti della conoscenza che sono possibili in un certo mezzo di visibilità.
La ragione razionalista, schematizzata, fornisce un unico mezzo di conoscenza. Un mezzo adeguato a ciò che già è o che ad essere si avvia con certezza; alle “cose”, insomma, tali come appaiono e come noi riteniamo che siano. Ma l’essere umano dovrebbe recuperare altri mezzi di visibilità che la sua mente e i suoi stessi sensi reclamano per averli già posseduti una volta poeticamente, o liturgicamente o metafisicamente…».
L’indeterminato, l’iperìon, di nascita e genere indefinibile, secondo lo schema che ci è stato tramandato dal mito, potrebbe in Medusa incontrare la sua origine. Forse la stirpe dell’altro regno non è stata del tutto annientata. La Terra che fu imbevuta del sangue di Medusa e che da quel sangue venne fecondata, potrebbe far riemergere dalle acque psichiche creature che le assomigliano.
Ne abbiamo una prova nel mare.
Scrive ancora Zambrano:
«E qui e ora, nel mare, l’animale chiamato Medusa esibisce qualcosa come il getto di un cranio: una membrana che fa pensare alla pia mater o alla dura mater, involucri del nostro cervello…
Un abbozzo di sistema nervoso, quindi, anche incompleto. Allo sguardo immediato che coglie questa presenza reale senza indagarla scientificamente, è la visione dell’origine remota della sede del sentire e del pensiero, o del progetto mai realizzatosi di un sistema nervoso e di un cervello ospitante una forma diversa di pensiero…».
Renata Adamo
Maria Zambrano nasce nel 1904 in Spagna, a Vèlez-Malaga, un piccolo centro dell’Andalusia. Frequenta la scuola superiore a Segovia, dove la sua famiglia si è trasferita. Nel ’21 inizia gli studi di filosofia; è allieva di Ortega y Gasset e diventa professore ausiliaro di metafisica all’Università di Madrid. Repubblicana convinta e politicamente impegnata, ma fedele a se stessa più che ad alcun partito, partecipa alla guerra fino all’affermarsi del franchismo. Nel 1939 abbandona la Spagna e affronta il suo lungo esilio politico (ben 45 anni), che la porta in molti paesi dell’America Latina e dell’Europa. Soggiorna anche a Roma dal ’54 al ’64. La sua grande originalità riconcilia in un’unica forma espressiva la parola poetica e la parola filosofica. Torna in patria solo nel 1984 dove viene insignita, prima donna, del Premio Cervantes. Muore a Madrid nel 1991.
Per ulteriori informazioni sulla vita e l’opera di Maria Zambrano:
www.universitadelledonne/zambrano.htm
Maria Zambrano, Chiari del bosco, Mondadori, 2004, pagg. 175, € 12,50
(ed. originale, Fondazione Maria Zambrano, 1977)