L’appello di Veltroni a manifestare contro le stragi di Gheddafi ha una ragione e un torto.
Quando la politica abituale non sa più come limitare una violenza bellica che le sfugge di mano, invoca i pacifisti: «Dove sono i pacifisti?». Come se essi fossero la ruota di scorta di culture e di partiti che pensano, preparano, finanziano e usano la guerra come parte inseparabile dalla politica, e poi, quando il sangue è troppo, danno la colpa non alla propria politica, ma a chi non ha fatto abbastanza per fermarli. Non sarà, magari, che voi non avete ascoltato e capito per tempo?
Chi ha venduto armi in grande abbondanza (tra tanti altri dittatori) a Gheddafi? Solamente il governo del suo compare Berlusconi?
Chi, già nel congresso del Pci del 1986, fece orecchio da mercante all’appello di fare della pace, del ripudio delle strutture di guerra, la punta politica di quel partito?
Chi, da sinistra, irrise, negli anni ’90, agli obiettori di coscienza alle spese militari, con leali trattenute fiscali pagate care, perché erano solo poche migliaia?
Chi non ebbe occhi per vedere e mente per capire la resistenza nonviolenta guidata da Ibrahim Rugova al dominio serbo e alla riduzione dei diritti della popolazione albanese del Kossovo, e si accorse del problema soltanto quando servì per fare la “guerra umanitaria”, che aumentò le vittime? Fu questa tutta l’intelligenza delle politiche correnti, di destra ma anche di sinistra, nella quale ci fu, in Italia, chi disse che «per dimostrare di saper governare bisogna anche dimostrare di saper fare la guerra».
I movimenti per la pace c’erano, la cultura della nonviolenza attiva e positiva c’era, studiava, educava, pubblicava, parlava, agiva, ma i politici, attaccati al vecchio realismo, la relegavano nei cieli dell’utopia. Anche davanti alle guerre di secessione e di pulizia etnica in Jugoslavia, il cui inizio fu permesso e utilizzato dalle politiche statali europee e persino ben visto dal Vaticano, quando fuoco e sangue furono troppi, si miagolava: «Dove sono i pacifisti?». I pacifisti – per meglio dire, i nonviolenti - c’erano, andarono (più numerosi dei volontari nella guerra di Spagna) a testimoniare e riconciliare, a servire le popolazioni sotto tiro, e diversi di loro ci persero la vita.
La cultura nonviolenta ha elaborato e proposto linee concrete alternative a tutte le nuove guerre, cieco alimento al terrorismo, nel ventennio a cavallo dei due millenni. Ma anche governi e partiti democratici le giustificarono e vi collaborarono, e continuano a sostenere la guerra afghana.
Tuttavia, i metodi nonviolenti di difesa e affermazione dei diritti si sono diffusi negli stessi decenni, e hanno dimostrato di essere più efficaci e meno costosi delle rivoluzioni e resistenze violente. L’esperienza promossa da Gandhi è conosciuta e seguita più oggi che nel Novecento, anche in queste rivoluzioni arabe, molto indicative delle potenzialità pacifiche e democratiche della cultura islamica, sebbene siano vicende ancora aperte. Non lo scontro di civiltà, ma il dialogo tra le culture è fermento di giustizia e libertà.
Il caso libico è particolarmente tragico per la durezza del regime di Gheddafi. Aiutare i rivoltosi con le armi? Dare soccorso umanitario internazionale? Accogliere i profughi? Adire al Tribunale penale internazionale?
Le politiche degli stati, coi tanti mezzi di cui dispongono, sono state prese di sorpresa e rivelano incertezze dovute anche ai precedenti compromessi con le dittature. I movimenti nonviolenti, coi loro pochi mezzi, hanno più chiaro il giudizio ma necessariamente più lenta la mobilitazione. La sollecitazione di Veltroni è giusta in sé, ma non è giusto giudicare inerte quella cultura che da sempre diffonde nei popoli la coscienza dei diritti umani insieme alla scelta della forza nonviolenta per affermarli: l’unità, la resistenza, il coraggio, la disobbedienza all’ingiustizia. È urgente che la cultura della pace nonviolenta prema nella politica interna e internazionale perché la forte solidarietà tra i popoli aiuti ciascuno di questi a liberarsi dall’ingiustizia coi mezzi della giustizia.
Enrico Peyretti