Fiesole – Vista dalle colline sopra Firenze la realtà delle rivolte nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo sembra lontana. Diversi contesti politici, diverse realtà economiche, insomma: non appaiono molti i fattori di convergenza fra le due realtà. Eppure alcuni punti di contatto appaiono evidenti.
Il Washington Post ha ben raccontato la storia dei giovani tunisini, una lost generation istruita, ma con lavori da fame, che si è ritrovata sui social media, da Facebook a Youtube, per prendere in mano il suo futuro e dire basta ad un regime autoritario e incapace di garantire un futuro degno di questo nome. Le continue violazioni delle più elementari regole dello Stato di diritto, il lavoro negato e le aspirazioni, anche le più elementari, cancellate.
La condizione dei giovani rappresenta sicuramente un elemento che, paradossalmente, accomuna il dinamismo delle rivolte di queste ultime settimane nel nord del Mediterraneo con la staticità che invece riguarda la condizione dei giovani italiani. Una pausa caffè può offrire spunti utili per una riflessione.
Ne parliamo con Nadia Marzouki, ricercatrice franco-tunisina dell’istituto universitario europeo ed esperta delle dinamiche politico-religiose dei Paesi del Mediterraneo.
«Sicuramente l’elemento generazionale è stato determinante. Esiste una profonda divisione, direi culturale, tra le generazioni che in Tunisia si sono formate e sono scese a patti con il regime di Ben Alì ed i ragazzi che sono scesi in piazza contro il regime».
In effetti in Tunisia e negli altri Paesi in rivolta, così come in Italia, le istanze dei giovani non sembrano connotarsi in base all’ideologia.
«Certo, in Tunisia questo è stato palese sin dall’inizio delle rivolte. Le divisioni non viaggiano lungo linee ideologiche, ma la differenza vera è fra culture politiche. Non destra e sinistra, ma autoritarismo unito al privilegio contro merito e democrazia».
Nadia non è una testimone normale, ha vissuto sulla sua pelle la violenza dell’autoritarismo del regime. Suo padre Moncef Marzouki, storico leader dell’opposizione tunisina, fu costretto anni fa a riparare in esilio in Francia e così, quando parla ora della Tunisia liberata, si percepisce l’emozione, la quasi realizzazione di un sogno che sembra divenire realtà.
«Dicevano che i tunisini erano dei buoni a nulla, che eravamo disposti ad accettare tutto. Abbiamo dimostrato che non è così. Ora abbiamo deciso di prendere in mano il nostro futuro». I giovani tunisini hanno deciso di dire basta e a risentirne sembrano essere proprio le relazioni con un’Europa che spesso li ha traditi, non li ha ascoltati: «Siamo indifferenti rispetto all’Europa o agli Stati Uniti. Certo, la Francia ha chiuso. Hanno sostenuto Ben Alì per tutti questi anni, cosa dovremmo pensare di loro? Quella che si sta formando in molti Paesi, grazie al fondamentale contributo di Al Jazeera è una identità pan-araba, una vera presa di coscienza di un nuovo mondo che non si può leggere con le categorie del passato».
La pausa caffè è quasi terminata, ma Nadia continua, offre dettagli, aneddoti, piccole e grandi storie di una realtà che si trasforma giorno dopo giorno.
«Il prossimo appuntamento saranno le elezioni di luglio. Non c’è nulla di certo ancora, alcuni vorrebbero una nuova Costituzione prima delle elezioni, altri vorrebbero prima eleggere il nuovo Parlamento».
Anche la cronaca degli ultimi giorni non offre maggiori garanzie, continuano gli avvicendamenti al governo provvisorio e non sembrano esserci intese sui nodi fondamentali delle future riforme. Nadia non dispera:
«Dobbiamo dare fiducia alla società, a quello che c’è fuori dai palazzi. Ho solo una paura: quella che i giovani siano manipolati dal sottobosco della partitocrazia che è comunque sopravvissuto al crollo del regime».
Ho un sussulto, non so perché. Forse questa l’ho già sentita da qualche altra parte, o forse era solo l’ultima goccia di caffè.
Pasquale Annicchino
(da Libertiamo.it, 5 marzo 2011)