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Paolo Bocconi. La musica dentro. Un ricordo di Chet Baker
26 Febbraio 2011
 

– Ma chi è Chet Baker?

A questa inattesa domanda di suo fratello, Paolo esibì la stessa espressione incredula che apparve sulla faccia della madre quando lui, tanti anni prima, le aveva chiesto: “Ma chi è Mussolini?”. Poi pensò che Andrea aveva qualche attenuante per non aver mai sentito parlare di Chet Baker; lui stesso aveva scoperto da poco che la musica nel mondo non gravitava necessariamente intorno al Festival di Sanremo. Una sera d'estate un militare americano, rimasto in Italia dopo la guerra, aveva fatto ascoltare a lui e a un gruppo di amici un disco che aveva appena ricevuto dall'America; il brano era “Sixteen tons” e aveva risvegliato in Paolo una mai sopita curiosità verso i filoni musicali d'oltre oceano.

– È difficile spiegarti chi è Chet Baker, forse la cosa migliore da fare è che io e te prendiamo la bicicletta e andiamo a fare un giro di Mura e vedrai che troveremo la risposta alla tua domanda.

La proposta era caduta in un silenzio incredulo. Un ragazzo di diciotto anni non si porta dietro il fratellino, se non ci è obbligato. I genitori si scambiarono uno sguardo sorpreso, fu la mamma a rispondere, anche se nessuno le aveva chiesto niente…

– Bene, ma tornate presto. Tu devi prepararti per il compito di greco, se non sbaglio.

Ancora raccomandazioni, ma loro già scendevano le scale di corsa, facendo tremare tutto. Li inseguivano raccomandazioni inutili.

Le Mura di Lucca sono lunghe quattro chilometri, perfette per un po' di allenamento, a piedi o in bici. Andrea spingeva forte per stare dietro al fratello: aveva una Bianchi Rossa, col cambio Campagnolo a tre rotini. La prima bici col cambio e ne abusava, cambiando rapporto in continuazione anche se l'anello sulle Mura era ovviamente tutto pianeggiante. Paolo invece pedalava con un rapporto lungo, da fondista, e gli stava avanti senza rendersi conto che il suo passo normale era troppo impegnativo per il fratellino, che però sarebbe morto piuttosto di dirgli: rallenta.

Fu un sollievo per Andrea vedere che dopo Porta Santa Maria Paolo si rialzava e pedalava senza mani…

– Perché ci fermiamo?

Paolo aveva lasciato la bicicletta appoggiata a un panchina e si era messo a parlare con due compagni di scuola. C'erano anche altri grandi.

– Ragazzi – disse agli amici – questo è mio fratello, si chiama Andrea.

Il ragazzino si sentì orgoglioso e smise di chiedersi perché si erano fermati. Tutti guardavano l'orologio e poi riguardavano il grande muro grigio di fronte, più alto delle stesse mura… Il muro del carcere.

– Zitti, zitti – fece uno.

Una nota tenuta scavalcò il grande muro: laggiù, là dentro, qualcuno suonava. La nota, ormai alta nel cielo cominciò a spandersi in tutte le direzioni in onde lente e lisce, ricomponendo nell'aria i frammenti di un'anima. Paolo si avvicinò all'orecchio di Andrea: – è una tromba, Chet Baker, il più grande dei bianchi.

Neanche a Messa la domenica la gente stava così in silenzio. Ogni tanto qualcuno in bici si avvicinava per capire quello che succedeva lì, poi se ne andava.

Andrea era così contento di essere con il fratello che non chiese mai di andare via. Quando finì e tutti presero le bici chiese al fratello: – ci torniamo?

– Sì, ma non dire nulla a papà e mamma.

Questo era un dono in più, un segreto da condividere. Era l'ottobre del '61. Uno di quei mesi con la nostalgia dell'estate. Il piovoso autunno lucchese quell'anno tardò, Paolo e Andrea fecero molti altri giri di mura in bicicletta. A casa Paolo suonava ad esaurimento la musica di Chet, così scoprì che oltre al suono della tromba aveva anche una voce, ma strana, diversa da tutti quei cantanti italiani mezzi tenori; sembrava cantare solo per se stesso con quella vocina che ti arrivava diritto al centro della malinconia. Sui giornali nessuno parlava più della grande tromba bianca. Andrea imparava i nomi di Charlie Parker, Dizzie Gillespie, Lester Gordon, Gerry Mulligan. Un giorno, arrivati puntuali al muro della prigione, c'era una ragazza ad aspettarli. Anzi, ad aspettare Paolo. Era molto carina, aveva i capelli tirati dietro in una coda di cavallo e non degnò Andrea di uno sguardo. Si sistemava continuamente la gonna, guardandosi attorno. Forse aveva paura che passasse suo padre, o forse lo faceva così, senza ragione. Quando si sentirono le prime note di “Almost blue” fece un gridolino eccitato, ma era chiaro che si annoiava molto. Dopo dieci minuti propose a Paolo di fare un giro. Lui disse al fratello di aspettarlo e si avviò verso il baluardo.

Andrea restò lì, furioso senza capire perché, con un vago struggimento che si intonava benissimo alle note di Chet. Anche il giorno dopo c'era la ragazzina, si ripeté la storia del baluardo e il giorno dopo ancora Andrea andò a giocare a pallone con gli amici del palazzo INCIS. Paolo poi non gli aveva chiesto di venire con lui. Anche in casa cambiò musica, in Italia ora c'era il rock and roll, Paolo aveva comprato Ventiquattromila baci di Adriano Celentano, e Claudio Villa dovette dividere il regno con un certo Modugno. Si smise di ascoltare il jazz, con evidente sollievo dei genitori.

Poi cominciò a piovere, il lungo monsone autunnale freddo di Lucca, e a nessuno veniva voglia di gite in bicicletta o di pallone. Paolo passa la maggior parte del tempo al telefono, bisbigliando con voce bassissima. Andrea prese il suo primo quattro a latino e si innamorò senza alcuna speranza della Torciglioni. Non lo disse a nessuno.

Passò un anno.

– Vuoi venire al concerto?

– Che concerto?

– Chet Baker. Ha finito la pena. Esce e fa un concerto al Teatro del Giglio.

L'idea non piaceva molto a suo padre: era pur sempre un drogato. Ma il fatto che fosse al Giglio, e la lista dei notabili che volevano esserci fecero pendere la bilancia verso il sì. Del resto si era disintossicato in carcere. A volte, le maniere dure... diceva suo padre guardando la madre, sempre troppo morbida con i figli, secondo lui. Andrea non era mai stato a teatro. La madre lo vestì elegante.

In prima fila c'era lo psichiatra che aveva cercato di curarlo, Lippi Francesconi. Era lui che lo portava tutte le sere dalla clinica Santa Zita al Bussolotto,il night versiliese dove suonava. Si deliziava del suo Jazz fino a tardi e poi lo riportava in clinica. Quella maledetta sera d'agosto lo psichiatra aveva un impegno, Baker era andato da solo e si era fatto nel bagno di una stazione di servizio. Lo avevano arrestato lì.

Andrea guardava i velluti rossi e stava ben fermo sulla poltroncina, osservando tutto. Era l'unico ragazzino in platea. Ed eccolo, quella musica ora aveva un corpo e un volto, che le somigliavano. Un uomo piccolo e agile, sembrava uno di quei pugili bravi, che ci tengono a salvare la faccia. Ma il naso li tradisce. Molto tempo dopo, qualcuno gli avrebbe rotto tutti i denti. Facendo tacere la miglior tromba bianca per due anni.

Chet quella sera suonava come se non ci fosse nessuno, ma il suo magnetismo se li portava tutti dietro. Quando riconoscevano un pezzo, i fratelli se ne bisbigliavano il nome all'orecchio.

– Meglio di prima –, sentirono dire a qualcuno dietro di loro.

Qualcuno indicava una bella donna con i lunghi capelli scuri, la sua donna, Carol.

Quando suonò “My Funny Valentine” capirono che il concerto era finito. Nell'estate era finito anche il primo amore di Paolo, e c'era stata la maturità. I Beatles erano alle porte.

Erano grandi i fratelli. erano uomini nel 1988, quando una scarna notizia riportò che Chet Baker era morto ad Amsterdam, forse cascato da una finestra, forse chissà.

Andrea aveva telefonato a Paolo per avvisarlo: ti ricordi?

Paolo prese il walkman, ci infilò il nastro di Baker e andò davanti alle mura del carcere, per sentirselo in santa pace sulla panchina. Quel giorno non c'era nessuno. Solo lui, Chet e My Funny Valentine.

 

Paolo Bocconi

 

 

Paolo Bocconi. Nato a La Spezia (casualmente perché il padre era ufficiale di marina), è vissuto a Lucca dal 1947 al 1963 dove ha preso la maturità classica. Ha cercato, senza troppa convinzione, di laurearsi in geologia all’università di Pisa. Dal 1964 al 1967 ha vissuto in vari posti d’Inghilterra. Nel 1968 ha cercato incoscientemente di farsi ammazzare a Praga durante la famosa Primavera. Nel 1970 si trasferisce a Roma per lavorare come customer service agent della compagnia Trans World Airline (TWA). Viaggia a sbafo per tutto il mondo, che poi era il motivo per cui si era fatto assumere dalla TWA. Dal 1976 al 1984 è istruttore tecnico per l’assistenza passeggeri nella società Aeroporti di Roma; si occupa anche di corsi di formazione del personale. Dal 1984 al 2000 insegna, con alterni risultati, a quasi tutto lo staff Aeroporti di Roma come si usa un personal computer e relativi software. Nel 2000 ne ha piene le tasche e dà le dimissioni. Attualmente fa il nonno, si occupa di fotografia e di informatica, cerca di curare i suoi molteplici acciacchi; insomma non fa nulla di utile per la società.


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