Per riassumere: il destino degli uomini di tutte le nazioni non sarà tutelato se prima non sarà risolto il problema della pace e dell’organizzazione del mondo. Non potrà esserci una rivoluzione efficace in alcuna parte del mondo, prima che sia realizzata questa rivoluzione. Tutto quello che di diverso si dice in Francia, oggi, è futile o interessato. Mi spingerò oltre. Non soltanto la forma di proprietà non sarà cambiata in maniera durevole in alcun punto del globo, ma i problemi più semplici, come il pane di tutti i giorni, la grande fame che fa torcere i ventri d’Europa, il carbone, non avranno alcuna soluzione fintantoché non sarà creata la pace.
Qualsiasi pensiero che riconosca lealmente la propria incapacità di giustificare la menzogna e l’omicidio è portato a questa conclusione, per poco che abbia a cuore la verità. Non gli resta quindi che conformarsi tranquillamente a questo ragionamento. Esso dovrà così riconoscere che: 1° la politica interna, considerata in modo isolato, è una questione esclusivamente secondaria e d’altronde impensabile; 2° l’unico problema è la creazione di un ordine internazionale che possa alla fine produrre le riforme di struttura durevoli tramite le quali si conclude la rivoluzione; 3° all’interno delle nazioni esistono ormai soltanto problemi di amministrazione, che vanno risolti provvisoriamente, e al meglio possibile, in attesa di una soluzione politica più efficace perché più generale.
Bisognerà dire, per esempio, che la Costituzione francese non può essere giudicata se non in funzione del servizio ch’essa rende, o no, ad un ordine internazionale fondato sulla giustizia e sul dialogo. Da questo punto di vista, l’indifferenza della nostra Costituzione alle più elementari libertà umane è deplorevole. Occorrerà riconoscere che l’organizzazione provvisoria dell’approvvigionamento è dieci volte più importante del problema delle nazionalizzazioni o delle statistiche elettorali. Le nazionalizzazioni non potranno funzionare in un solo paese. E se nemmeno l’approvvigionamento può essere affrontato sul solo piano nazionale, esso è quantomeno più urgente e impone il ricorso a degli espedienti, anche provvisori.
Tutto questo può dare, di conseguenza, alla nostra valutazione sulla politica interna il criterio che finora le mancava. Trenta editoriali de l’Aube avranno voglia di opporsi ogni mese a trenta editoriali de l’Humanité, non riusciranno a farci dimenticare che questi due giornali, con i partiti che rappresentano e gli uomini che li dirigono, hanno accettato l’annessione senza referendum di Briga e Tenda, e si sono in questo modo uniti in un’unica impresa di distruzione nei confronti della democrazia internazionale. Che la loro volontà sia buona o cattiva, il signor Bidault e il signor Thorez favoriscono a pari merito il principio della dittatura internazionale. Da questo punto di vista, e qualsiasi cosa se ne possa pensare, essi rappresentano nella nostra politica, non certo la realtà, ma l’utopia più deplorevole.
Si, dobbiamo togliere importanza alla politica interna. Non si guarisce la peste con i rimedi che si applicano ai raffreddori di testa. Una crisi che lacera il mondo intero deve essere risolta su scala universale. L’ordine per tutti, affinché sia diminuito per ciascuno il peso della miseria e della paura, è oggi il nostro obbiettivo logico. Questo però richiede un’azione e dei sacrifici, ovvero degli uomini. E se ci sono molti uomini oggi, che nel segreto del loro cuore maledicono la violenza e il massacro, non ce ne sono molti disposti a riconoscere che questo li costringe a riconsiderare il loro pensiero o la loro azione. Coloro che vorranno fare, tuttavia, questo sforzo, avranno modo di trovarvi una ragionevole speranza e la regola di una azione.
Essi ammetteranno che non hanno un gran che da aspettarsi dagli attuali governi, dato che questi vivono e agiscono secondo dei principi omicidi. La sola speranza sta nello sforzo più grande, quello che consiste nel riprendere le cose al loro inizio, per fare di nuovo una società viva all’interno di una società condannata. È quindi necessario che questi uomini, uno a uno, rifacciano fra loro, all’interno delle frontiere e al di sopra di esse, un nuovo contratto sociale che li unisca basandosi su principi più ragionevoli.
Il movimento per la pace di cui ho parlato dovrebbe poter articolarsi, all’interno delle nazioni, in comunità di lavoro e, oltre i confini, in comunità di riflessione: le prime delle quali, in base ad accordi consensuali sul modo cooperativo, solleverebbero il maggior numero possibile di individui, mentre le seconde tenterebbero di definire i valori su cui poggerà quest’ordine internazionale, sostenendone nel contempo la causa in ogni occasione.
Più precisamente, il compito di quest’ultime sarebbe quello di opporre parole chiare alle confusioni del terrore, e spiegare nello stesso tempo i valori indispensabili ad un mondo pacificato. Un codice di giustizia internazionale il cui primo articolo sia l’abolizione generale della pena di morte, e una messa in chiaro dei principi necessari a qualsiasi civiltà del dialogo potrebbero essere i suoi primi obbiettivi.
Questo lavoro risponderebbe ai bisogni di un’epoca che non trova in alcuna filosofia le giustificazioni necessarie alla sete di amicizia che brucia oggi gli animi occidentali. Ma è fin troppo evidente che non si tratterebbe di edificare una nuova ideologia. Si tratterebbe soltanto di cercare uno stile di vita.
Sono questi, in ogni caso, dei motivi di riflessione e non posso dilungarmi su questo tema nell’ambito di questi articoli. Ma, per parlare più concretamente, diciamo che degli uomini che decidessero di opporre, in qualsiasi circostanza, l’esempio al potere, la predicazione alla sopraffazione, il dialogo all’insulto ed il semplice onore all’astuzia; che rifiutassero tutti i vantaggi della società attuale ed accettassero soltanto i doveri e le responsabilità che li legano agli altri uomini; che si impegnassero ad orientare prima di tutto l’insegnamento, poi la stampa e l’opinione, secondo i principi di comportamento di cui si è trattato finora, quegli uomini non agirebbero nel senso dell’utopia, è evidente, ma secondo il realismo più onesto. Essi preparerebbero l’avvenire e, in questo modo, farebbero cadere fin da oggi alcuni dei muri che ci opprimono. Se il realismo è l’arte di tener conto del presente e del futuro nello stesso tempo, di ottenere il massimo sacrificando il minimo, chi non vede che la loro scelta risponderebbe alla realtà più lampante?
Questi uomini si solleveranno, oppure no, non posso sapere. È probabile che la maggior parte di essi in questo momento rifletta, e questo è bene. Ma è certo che l’efficacia della loro azione sarà strettamente legata al coraggio con cui accetteranno di rinunciare, per il momento, ad alcuni loro sogni per dedicarsi esclusivamente all’essenziale, che è salvare le vite.
E, arrivati a questo punto, bisognerà forse, prima di concludere, alzare la voce.
Albert Camus, Ni victimes Ni bourreaux (in Combat, nov. 1946)
Traduzione di Ivana Cenci
(7 di 8 – La pubblicazione in Tf proseguirà, regolarmente e con continuità, ogni martedì)