Certo, il pericolo che da due cuori e due capanne si passi prima a tre e poi a quattro cuori e due capanne, è innegabile che esista. In attesa di statistiche più ampie e attendibili, parlo delle mie piccole esperienze.
In base a queste sembrerebbe che in molti casi il non convivere possa giovare a non far precipitare i rapporti di coppia. Almeno a non arrivare, come nel caso dei due colleghi che frequento di più, alla lotta continua, alla separazione definitiva, al divorzio.
Il biondo lo chiamo Minkiowski, nome appena appena modificato del grande matematico Hermann Minkowksi (alla cui intuizione di spazio-tempo Einstein si ispirò per lo sviluppo della teoria della Relatività). Di origine siciliana, con l’intercalare di “Che minchia dici?”, “Che minchia fai?”, “Chi minchia è?”, “C’ho tanto di minchia, io!”, capirete il perché della semplice aggiunta di una “i” al nome del celebre scienziato. L’altro, moro ormai canuto, lo chiamo “Adaveni’” o “Duenovembre”. Tutti i giorni urla “Adaveni’ Baffone! Mezza nazione in Siberia spedirà!” E, ancora: “Ci vogliono le bombe! Qui siete tutti rincoglioniti! Le bombe ai neutroni! Quelle che ammazzano tutti e non buttano giù le case! Così le daremo agli extracomunitari!” e io “Guarda che registro quello che dici anche al telefono e ti ricatto o ti faccio finire in galera!” L’altro nome, Duenovembre, deriva dal fatto che da quando lo conosco (quasi 40 anni) continua a dire “Tanto ho un piede nella fossa!”. Ultimamente gli ho chiesto di passare almeno a “Un piede e mezzo nella fossa, altrimenti finisce che sotterri pure gli ultimi studenti, restando con l’altro piede sempre fuori della fossa”.
Allora, Adaveni’ ha resistito al “due cuori e una capanna” giusto il tempo per fare un figlio. Dopodiché, troppo diverse le esigenze e le abitudini: quindi, ognuno di corsa nella sua capanna, fine delle polemiche e tuttora rapporti cordialissimi di stima reciproca.
Minkiowski invece ha trovato una soluzione più elaborata e moderna.
Ha sposato una siciliana, anche lei col complesso dei siciliani antiquati e gelosi. Vivendo in un ambiente dove è d’obbligo essere moderni, anticonformisti e, scherziamo?, mai gelosi, ha sfruttato a suo vantaggio e alla grande, la recita del femminismo e anticonformismo della moglie. Già prima di sposarselo, da convivente, aveva più corna di due canestri di lumache. Col matrimonio e col suo tran-tran, si sa che, come le ciliegie, un corno tira un altro. “Ho tanta di quella minchia, che non so dove allocarla adeguatamente!”, una delle sue espressioni ricorrenti, per giustificare i continui congressi e le riunioni dove doveva e deve andare.
Da buoni siciliani hanno figli rispettosi, ben educati e non hanno sfasciato la famiglia, non per motivi religiosi, essendo atei entrambi. Il problema della capanna l’hanno risolto così: lui lavora in un’altra città e quando torna a casa, lei se ne va. E viceversa. Ha girato tutti i paesi del mondo e ora sta tornando a quelli che vide 30 anni fa. Rarissimamente si fanno vedere insieme. Sono forse l’unico ad aver l’onore di ospitarli a cena. Una volta, restati soli, lei mi chiese come andava con mia moglie su quel fronte. ― Vedi mia cara, ― risposi ― mia moglie è una toscanaccia senza complessi. Lei non ha mai pensato di far bella figura a mostrare come è moderna ed emancipata. Ha messo subito le cose in chiaro: “Se ti becco, lì per lì divento una belva, ma poi… ognuno a casa sua”.
Altri due colleghi, sono stati per 30 anni in città lontane. In un’unica capanna solo quando riuscivano a vedersi. Si sono impegnati per 30 anni per ottenere il trasferimento e vivere finalmente nella stessa capanna. Quando ci sono riusciti… hanno constatato quanto sia dura e sfibrante la convivenza. Dopo pochi mesi… via di corsa ognuno nella sua capanna.
Due amici genovesi dopo anni e anni d’incomprensioni e di liti, soprattutto per le scappatelle di lui, hanno un legame che si regge sulla filosofia della moglie, ottima conoscitrice di quegli immaturi degli uomini. “Hanno quel coso lì e gli si annebbia il cervello se non lo intingono, ovviamente innocentemente, come dicono, in altre minestre. Ognuno nella propria capanna, così occhio non vede, orecchio non sente e cuor non duole. Tanto lui è un cucciolone immaturo che prima o poi torna a cuccia”. Strategia condivisa da tantissime mogli anche famose e anche da qualche marito a comportamenti invertiti.
Una coppia residente ad Arezzo ha passato la vita a bisticciare e, purtroppo, anche a fare a botte. Finiti in tribunale, hanno chiesto di testimoniare a imbarazzatissimi parenti che hanno litigato tra loro. Andati in capanne diverse, hanno finito col rivedersi in una stessa capanna e col riaccendere il fuoco. Ovvia conseguenza: freddezza incrociata con i parenti che avevano messo il dito tra moglie e marito, testimoniando a favore di uno, le cattiverie e le colpe dell’altro. Ora son tornati alla fase di una sola capanna, per risparmiare. Già, i soldi condizionano tanti mariti che, per non andare a mangiare alla Caritas, non divorziano, vanno in un’altra capanna e spesso, passati gli anni delle passioni incontrollabili, tornano a cuccia.
È nota l’affermazione di tante coppie del mondo dello spettacolo per cui vivendo magari in continenti diversi, quando si ricongiungono in una delle due capanne, si riscoprono come persone nuove. La lontananza ossigena il rapporto. Nell’aggiornarsi sulle novità, si combatte la noia della capanna unica, idonea alla verifica della constatazione di Oscar Wilde che il peso del matrimonio sia tanto grande che per reggerlo, bisogna essere in due. Meglio ancora se si è in tre. Oggi dovremmo dire: o anche più di tre e, possibilmente, non sempre gli stessi.
Umberto di Savoia, ultimo Re d’Italia, e la Regina Maria Josè, rifiutarono la stessa capanna sin dall’inizio. Stando ai pettegolezzi, Umberto fu un Berlusconi gay. Ma i tempi erano tali che le voci potevano essere del tutto inventate, sia per eccessivo conformismo che per screditare la monarchia. Per rendere l’idea dei tempi, basti ricordare l’arringa antimonarchica del compagno progressista Pietro Nenni che nei comizi chiedeva urlando: “Volete un re pederasta?” Quando, con 4 figli e a monarchia battuta, decisero di andare in capanne di nazioni diverse, lui ebbe a dire di non conoscere sua moglie, perché in realtà, non avevano mai parlato. Troppo indaffarati a far figli… scrisse Montanelli. I monarchi non divorziavano e quindi restarono separati in capanne diverse. E vissero infelici e scontenti anche in capanne ancora più lontane.
Conosco una coppia di cattolici di ferro (lui serve anche la Messa). La convivenza in una capanna anche coi suoceri, finì con la cacciata di casa per eccessiva “invadenza” del chierichetto da parte della suocera, ovviamente dopo anni di liti e risse. Il ricorso alla seconda capanna bene o male sembra aver salvato l’indissolubilità del matrimonio.
Un pericolo serio per questa soluzione è costituito dall’intraprendenza e dalla bellezza di collaboratrici domestiche ucraine, russe, polacche, ecc. Grazie ai pruriti senili, a rischio di colpi apoplettici grazie a chimica, magnetoterapia, elettroterapia, sonoterapia, chirurgia, protesi e agli indubbi progressi della mummiologia, la seconda capanna viene adibita (non più tanto a sorpresa) a capanna con due cuori e Pronto Soccorso annesso.
Con i più giovani, il quadro è ancora più complicato. Sempre più agitati e distratti, vanno ad abitare nella capanna che un suocero ha comprato o costruito per loro, magari chiedendo un mutuo. Iniziano subito a litigare per mancanza di spirito d’adattamento, avendole avute sempre tutte vinte, ciascuno in casa dei propri genitori. Esauriti sin dalla nascita, si fanno beccare come allocchi con messaggini telefonici o via internet, magari dopo pochi mesi e… la capanna di chi è? Ne ho sentite di tutti i colori… Problemi coi mobili, coi mutui, con genitori e suoceri… Insomma, dalla capanna… al gran casino.
Spesso i bamboccioni danno retta ai genitori, che consigliano di far raffreddare gli animi, sperando che la tecnica delle due capanne possa, col tempo, far tornare se non l’amore travolgente, un po’ di calma per discutere meglio.
Per non parlare delle decine di casi in cui, filato tutto liscio o quasi in una capanna fino all’andata in pensione di lui, lei e contorno familiare, non resistono alla petulanza, all’invadenza, al nervosismo, alla monotona ripetitività di lui sempre tra i piedi. Brontolone, goffo in cucina e nelle pulizie, con pallini maniacali, si scopre l’utilità e il benessere che ne deriva, se si riesce a spedirlo in un’altra capanna o a trovargli un altro lavoro.
Nel mio caso, con l’avvicinarsi dell’andata in pensione, ho colto nell’aria certe aspettative sul mio futuro. La moglie vorrebbe che ci trasferissimo nella grande casa di campagna, adibita finora a incontri scientifico-artistico-culinari. Senza bunga-bunga di cui, confesso, non ho capito nulla. Vorrebbe quindi avermi a disposizione a tempo pieno, per figli e parentame vario, per farmi cucinare, fare l’ortolano, il boscaiolo, il baby-sitter e rallegrare l’atmosfera. I figli a maggior ragione si aspettano che io faccia il cuoco e il bravo nonnetto, sempre a tempo pieno, addomesticando le loro belvette. Io che di tutto ho voglia, tranne che di tirare i remi in barca, ho messo le mani avanti, tenendo conto dei vantaggi che tanti hanno ricavato con la filosofia dei due cuori e due capanne. Ho spiegato quindi a mia moglie i benefici delle due capanne. E lei: “D’accordo, amore, perché no? Anche tre di capanne. Purché io stia con te, sempre con te, quando tu andrai in ciascuna delle due o tre capanne. Perché io, dal 19 marzo del 1970, non ho più saputo vivere senza di te e ora, più che mai, non riesco a starci…”.
Berlusconi, con tutte le capanne che ha a disposizione, sicuramente è passato dal due cuori e una capanna al periodo del “due cuori e… sempre più capanne”.
Gli è mancata la fortuna di sposare una come mia moglie. O di una con la sensibilità della poetessa Maria Luisa V. Beck Peccoz Spanò. Di una che, nonostante tutto, invece di innescare il massacro mondiale moralista sul marito con la famosa, inopportuna e micidiale lettera aperta, gli scrivesse, preferibilmente in privato:
È tardi
È veramente tardi, ormai.
È tardi
per poter polemizzare,
per poter recriminare,
per voler puntualizzare.
È troppo tardi
per ferirci e sopportare, soffocare
la gran voglia di poterci riabbracciare.
Non c’è tempo per l’orgoglio,
non c’è tempo per i finti addii,
non c’è tempo per poterci sopraffare.
È troppo tardi per poter porre rimedio
agli antichi errori e a quelli nuovi
in un quadro, luci e ombre,
ma con luci abbaglianti.
Riguardiamolo e le ombre svaniranno.
Non c'è tempo
per il lusso amaro e giovanile
del soffrir la lontananza.
Non è più tempo per chiamare a testimone
un amico, la nazione
o il mondo intero,
per mostrar chi ha ragione.
Rinunciamo alle lacrime represse,
alle attese interminabili e crudeli,
agli abbandoni urlati e disperati
per averli pronunciati.
Ora è tardi per davvero,
amore mio.
È tardi per parlare dei rimpianti,
per finire in altri pianti.
Raccogliamo
questi frutti autunnali,
insperati,
dissetiamo e rinverdiamo
il deserto essiccato
delle sensazioni amate
in tutto il tempo ch’è passato.
Spalmiamo balsami
sulle nostre ferite nuove e antiche.
Siamo stati tanto tempo, tanto bene
che vorrei ricominciare.
Rivivrei anche le liti,
per godere della gioia
degli abbracci
dell’amore
della pace.
È troppo tardi
per lasciarci
amore mio.
Libero adattamento di “È tardi”, di Maria Luisa V. Beck Peccoz Spanò (Monaco di Baviera)
Con una lettera simile e un comportamento adeguato, chissà, forse avremmo avuto una storia diversa.
“Nun m’importa si o passato sule lacrime m’ha dato, resta cu mme, cu mme” scrisse Modugno al posto di frasi più forti inizialmente censurate. E Berlusconi, che tuttora ama cantare canzoni d’amore in francese, è ovvio, non aveva procurato alla moglie solo lacrime. Anzi. Ma Modugno e la Beck Peccoz Spanò, hanno altra sensibilità e umanità.
Paolo Diodati