Nel dopoguerra, la vicenda degli IMI è stata considerata una sorta di storia minore, e sostanzialmente messa a tacere, tanto che già il loro numero, cioè quanti furono gli internati in Germania, costituisce ancora un problema. Secondo Alfred Jodl (impiccato a Norimberga), furono 547.531; secondo Wilhelm Keitel (impiccato a Norimberga), 750.000. Secondo Gerhard Schreiber, uno degli storici più documentati e più attenti, al 1° febbraio ’44, erano 809.722.
Anche le perdite totali fra gli IMI sono variamente calcolate e vanno dai 50 ai 60 mila e oltre così suddivise: circa 25 mila morti nelle brutali operazioni di disarmo, e 25-30 mila nei Lager secondo Gabriele Hammerman, che è l’autrice dell’ultimo contributo storiografico sul tema, la quale riporta tra le cause dei decessi:
- la durezza e pericolosità del lavoro coatto nei lager;
- le malattie e la malnutrizione, specialmente negli ultimi mesi di guerra;
- le esecuzioni capitali all'interno dei campi (4.600);
- i bombardamenti alleati sulle installazioni dove lavoravano e sulle città dove prestavano servizio antincendio (2.700);
- altri 5-7.000 perirono sul fronte orientale.
Alcune migliaia di ex IMI finirono nelle mani degli eserciti francese, russo e jugoslavo e, anziché essere liberati, continuarono la prigionia anche per diverso tempo dopo la fine della guerra.
Questo balletto di cifre fa capire che vi fu un sostanziale disinteresse del paese verso le vicende della deportazione militare, soprattutto perché i reduci apparivano ai politici e ai vertici delle Forze armate - tutti desiderosi, per un verso o per l'altro, di dimenticare in fretta - come «testimoni fastidiosi» delle gravissime responsabilità nella partecipazione dell'Italia alla seconda guerra mondiale e nella gestione dell’8 settembre.
Soltanto negli anni Ottanta la storiografia ha rivolto la giusta attenzione alla storia degli internati militari, e ad essi fu assegnato il posto che loro compete come parte importante nella storia della Resistenza italiana. Perché proprio gli IMI, come qualcuno ha detto, non avendo più la possibilità di vincere il nemico, seppero però vincere se stessi, sfidando, inermi com’erano, ammalati e con la divisa a brandelli, la crudele potenza del Terzo Reich.
Come ha scritto Giorgio Rochat, tra i più importanti storici delle guerre mondiali, il primo in Italia a studiare il “fenomeno “ degli IMI:
«Centinaia di migliaia di militari invece della guerra nazifascista scelsero e pagarono la fedeltà alle stellette della patria. Le stellette a cinque punte sul bavero della divisa sono il simbolo tradizionale dei militari italiani. La fedeltà alle stellette fu la motivazione più comune e diretta della grande maggioranza dei 650.000 militari italiani che preferirono la prigionia nei lager tedeschi al passaggio dalla parte nazifascista. Questi 650.000 prigionieri erano degli sconfitti che avevano vissuto il fallimento del regime fascista, la misera fine delle guerre di Mussolini, lo sfacelo delle armate l’8 settembre. Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio, che li avevano abbandonati senza ordini agli attacchi tedeschi. Ciò nonostante, una grande maggioranza di questi sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia nei lager».
Con la fine della guerra ebbe termine l’odissea degli IMI che vennero rimpatriati dagli eserciti liberatori. Il rientro avvenne su treni merci sovraccarichi. Non pochi furono gli incidenti mortali a causa del sovraffollamento. Fu un ritorno amaro, senza l’accoglienza e i riconoscimenti che costoro si attendevano. Furono presto dimenticati, sia dai governi che dalle forze armate: era più importante ricostruire un nuovo esercito che revisionare il passato e quindi l’esercito riprese in esercizio tutti gli ufficiali senza discutere le loro scelte nel 1943-’45. Non pochi ufficiali che avevano resistito nei lager si trovarono a prestare servizio con ufficiali che avevano aderito alla Repubblica Sociale.
Nel 1986 il Parlamento europeo adottò una risoluzione che sollecitava le industrie tedesche coinvolte a risarcire il lavoro coatto. Nel 1999 la Germania creò la fondazione “Memoria, Responsabilità e Futuro”, che stanziò 10 miliardi di marchi (metà Stato, metà industrie coinvolte) per pagare il lavoro coatto. Erano esclusi i prigionieri di guerra, ma anche gli IMI, dato che, si disse, il loro passaggio a lavoratori civili era palese violazione del diritto internazionale.
Scrive Natale Borsetti in chiusura del suo libro La mia Resistenza non armata. Appunti e disegni di un militare nei lager della Germania dal 1943 al 1945, Morgana Edizioni:
«Perché non è mai stato considerato con giustizia il loro sacrificio? In tutti gli Imi è rimasta sempre la grande delusione per l’ingiustizia di essere stati esclusi da qualsiasi forma di risarcimento economico e per non aver trovato - mai - nel loro paese l’accoglienza e la considerazione che si aspettavano.
Per quanto ancora dovranno restare dei prigionieri invisibili?»
La mostra “Natale Borsetti. La mia Resistenza non armata. Appunti e disegni di un militare nei lager della Germania dal 1943 al 1945”, da me curata, è visitabile presso la Biblioteca comunale di Pontassieve dal 22 gennaio al 3 marzo.
Per informazioni:
Assessorato Dipartimento Cultura tel. 055 8360343-344
cultura@comune.pontassieve.fi.it – www.comune.pontassieve.fi.it
Morgana Edizioni tel. 055 8398747
info@morganaedizioni.it – www.morganaedizioni.it
Associazione Culturale MultiMedia91 tel. 335 6676218
www.multimedia91.it
Orario Biblioteca:
lunedì 15-19, dal martedì al venerdì 9-19, sabato 10-13 / 14.30-18. Ingresso libero
Alessandra Borsetti Venier
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