Il pittore internato
All'autoritratto manca la mano destra
e il braccio sinistro pende di là dei confini della tela.
Lo sfondo è notte pura senza vortici di stelle:
nera come la fame che ci divora.
Il mio viso è surrealtà iperreale:
vivo e vegeto senza un corpo animale.
Indosso una divisa di tela stracciata e dipingo
disperazione, odio, rancore,
umiliazione, vergogna, sopraffazione,
confessioni estorte, camere di sangue,
forni che bruciano carne e ossa
per farne fumo in un cielo artefatto.
La notte ascolto il vento fischiare
e i lupi ululare nelle desolate lande.
Guardo dritto quando non posso,
abbasso gli occhi quando non voglio.
Gli aguzzini ci rinchiudono in lerci sgabuzzini
dove sussurrano le voci di chi più non è.
La rete spinata (io la scorgo anche quando
non è alla vista) è come la siepe
dell’ermo colle, ma di qua e di là c'è il vuoto:
in essa passa la corrente
che potrebbe donare la pace
alla rovinosa cascata dei giorni.
La mia dignità può fare a meno del fantasma della libertà?,
io mi domando senza risposta.
Se un tempo ho avuto madre e padre,
moglie e figli, amici; se un tempo
ho amato, giocato e sperato...
ho scordato pure questo.
Ascolto la conta di ogni grigio mattino
e l’ossessiva, necessaria, decimazione
declamando nella mente
versi e colori corrosi dal tempo.
Talora, con la neve che mi cade sul volto,
incendiandolo di gelo,
sorrido alla mia immagine ideale
che mai più riavrò.
Alberto Figliolia