Lo stato di internati non era previsto da nessuna norma internazionale tra nazioni belligeranti, ma corrispondeva agli interessi tedeschi almeno per due motivi:
1. rappresentava un riconoscimento alla Repubblica Sociale, considerata come l’unico governo rappresentante del popolo italiano, e rifiutava legittimità al Regno del Sud, nella parte d’Italia liberata dagli angloamericani;
2. eliminava ogni controllo della Croce Rossa, permettendo lo sfruttamento più duro, in barba al diritto internazionale.
Questa decisione ebbe gravissime conseguenze per gli internati: si è calcolato che nei campi di prigionia tedeschi, circa il 40% del vitto era rappresentato dai pacchi distribuiti dalla CR.
Inoltre li lasciava indifesi di fronte a ogni abuso e violenza.
A poco servì il SAI (Servizio Assistenza Internati) creato nel marzo ’44 dalla Repubblica Sociale: sia perché la poca assistenza giunta a destinazione riguardava solo i militari della parte d’Italia occupata dai tedeschi, sia perché il comando della Wehrmacht non comunicò mai a Mussolini né la reale consistenza degli IMI, né la geografia dei Lager.
Mussolini sperava di reclutare tra gli internati il futuro esercito di Salò. Ciò però andava contro gli interessi tedeschi, come abbiamo detto. Fu permesso comunque per alcune settimane la visita nei Lager dei rappresentanti del governo della Repubblica Sociale. Era offerta ai prigionieri la possibilità di aderire al regime fascista, o di collaborare nei servizi ausiliari della Wehrmacht e della Luftwaffe.
La quantità delle adesioni non è storicamente determinabile. Dipendeva da campo di prigionia a campo di prigionia. Sappiamo ad esempio da fonte fascista che a Sandbostel e a Wietzendorf su 13.000 interpellati, i “sì” furono 120; ma nell’Oflag di Bjala Podlaska, caso limite, su 2.500 ufficiali i “no” furono solo 145. Da allora il Lager fu battezzato “campo Graziani”, dal nome del ministro della guerra di Salò.
A lungo si è parlato di un livello di adesione del 2-3%; la storiografia più recente valuta invece un 10% di adesioni: comunque pochissime se si pensa alla possibilità, che era offerta, di abbandonare l’inferno dei Lager e di poter tornare alle proprie case.
Il sogno di Mussolini si realizzò in sole due divisioni addestrate in Germania e fatte rientrare in Italia nel luglio ’44, prevalentemente impiegate in azioni antipartigiane: la “Monterosa” e la “San Marco”: 57.000 uomini, dei quali solo 13.000 raccolti nei Lager.
Ma come si viveva nei Lager?
Gli Stalag erano collocati non lontano dalle fabbriche in cui i soldati erano impiegati, quindi in zone obiettivo dei numerosissimi bombardamenti che devastarono la Germania. In molti Lager, quando suonava l’allarme, i prigionieri erano chiusi a chiave. Moltissimi morirono sotto i bombardamenti. Una circolare del Ministro degli armamenti, Albert Speer, alle industrie interessate, disponeva che le morti sotto le bombe erano da definire incidenti sul lavoro.
Il trattamento nei loro riguardi era contraddittorio: da una parte erano considerati i traditori badogliani e, nella gerarchia dei Lager, appena sopra dei russi, che significava quantità di cibo sotto le necessità vitali.
D’altra parte erano anche forza lavoro necessaria; quindi numerose erano le lagnanze per la scarsa produttività. La situazione peggiorò ulteriormente quando Hitler il 28 febbraio 1944 diramò disposizioni per i prigionieri, che prevedevano aumenti o cali del cibo a seconda del rendimento.
Negli Stalag iniziò una vera strage. Una relazione dei responsabili della Daimler-Benz, ad esempio, comunicava che:
La riduzione delle razioni può avere certo effetti educativi… ma gli internati italiani sono così denutriti… che in genere non riescono a superare malattie come la polmonite e simili, e muoiono nel giro di poche ore.
Alessandra Borsetti Venier
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