Spettacolo più che concerto, coreografie più che spartiti, tanta energia profusa senza risparmio. Nessuna raffinatezza musicale, anzi, una notevole monotematicità e staticità di base: questo il progetto presentato mercoledì sera da Les Tambours du Bronx nella prima serata del neonato “Cavea Festival” di Pusiano.
In un ambiente naturale straordinario, una cava di calcare abbandonata e recuperata con un intelligente progetto di archeologia industriale, è iniziata una rassegna di spettacoli che si rivolge anche agli appassionati di teatro e danza. Les Tambours du Bronx, originari del quartiere ferroviario di Varennes-Vauzelles, nei pressi di Nevers, soprannominato il Bronx a causa delle sue vie ad angolo retto e della sua gigantesca officina, si sono formati nel 1987 in occasione del festival “Da Nevers all'alba”. L'idea del bidone la permutano dai Tamburi del Burundi, senza riferimenti etnici ma con la rabbia metropolitana che li fa picchiare forte. Sono diciassette ragazzotti dai volti inquietanti a tambureggiare su bidoni metallici, con un tastierista e, a turno, due alle percussioni elettroniche.
Provenendo dalla parte più remota della contemporaneità, la loro proposta musicale è poesia industriale stravolta, per mezzo di barili di petrolio vuoti percossi in riff assordanti. Un cocktail tra ritmi primitivi, marcia militare e sfilata di caterpillar, con la cava come luogo deputato. Nessun possibile riferimento a gruppi di percussionisti attivi sulla scena. Lontani dalla musica tribale dei Farafina (Africa) o degli Olodum (Brasile), ma anche senza le idee e i voli pindarici dei compositori contemporanei per percussioni (Cage, Reich, Xenakis...). Impossibilitati alle poliritmie e alle raffinatezze musicali di gruppi come il M'Boom Re Percussions di Max Roach, Les Tambours du Bronx marciano in direzione di una musica fortemente urbanizzata, in cui le angosce e le durezze delle periferie trovano uno sbocco immediato e violento.
Perfetta la macchina organizzativa del gruppo : coreografie dei movimenti collettivi e luci stroboscopiche abbinate magistralmente, il tutto oliato da più di 850 concerti in diciannove anni di attività. Paradossalmente il punto debole rimangono le musiche (?), o forse sarebbe meglio dire i ritmi. Una notevole pesantezza e durezza di fondo, dovuta non agli strumenti ma alle atmosfere scelte: rap in slang, incomprensibili e noiosi, uniformità di paesaggi sonori virati verso ambientazioni dark e hard rock. Insomma, grande spettacolo con poca musica.
Roberto Dell’Ava