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Yoani Sánchez. Un sorso di caffč
16 Gennaio 2011
 

Il mercato dei souvenir e dell’artigianato nei pressi del porto vibra, pieno di vita, in questa giornata. È domenica e i turisti osservano le sculture in legno, le borsette di cuoio, gli eleganti umidificatori in mogano per conservare i sigari. In uno dei lati dell’immensa costruzione che un tempo è stato il molo San José, adesso vengono esposte tele, paesaggi fatti con acrilico, ritratti di voluttuose mulatte o disegni di palme altissime contro un cielo azzurro. In questo posto troviamo una grande produzione di arte kitsch, da vendere rapidamente a turisti stranieri che si porteranno via un pezzo d’Isola da attaccare nelle sale delle loro case lontane. Tuttavia, se cerchiamo bene, se superiamo l’ostacolo iniziale dei tagliatori di cocco dipinti con un olio stridente, possiamo rinvenire vere e proprie opere d’arte. Richiamano l’attenzione i simboli dell’identità nazionale presenti in ogni quadro: i tamburi in pelle di capretto, la rotonda cupola del Capitolio, il vecchio Chevrolet scassato, la bottiglia di rum, la tavola da domino dove giocano soltanto uomini, i fianchi rotondi di una creola, gli enormi Cohibas dalle foglie lisce e il caffè che diffonde il suo aroma al centro della composizione.

 

Il caffè è una componente indispensabile del nostro essere cubani, una bibita oscura e amara - come le nostre radici - che ci ha accompagnato per secoli. Prendere un sorso di caffè alla mattina è sempre stato l’equivalente nazionale della colazione. Poteva mancare qualsiasi cosa, il pane, il burro e persino l’irraggiungibile latte, ma non essere in grado di riscaldare lo stomaco al risveglio con quella bevanda stimolante era il preambolo di una cattiva giornata, il motivo per uscire stressati e di pessimo umore. I miei nonni, i miei genitori, tutti gli adulti che osservavo da bambina, bevevano tazze su tazze di quel liquido scuro, mentre conversavano degli argomenti più disparati. Non appena si entrava in casa, mettevamo la caffettiera sui fornelli, perché il rituale di offrire un caffè era importante come dare un abbraccio o invitare una persona a fare una visita. Correvano gli anni Ottanta quando dovevo fare miracoli per far bastare l’esigua quota del mercato razionato e non lasciare gli ospiti senza l’attesa bevanda. In casa nostra, per non venir meno al dovere di ospitalità e al tempo stesso poter bere anche noi al risveglio un po’ di caffè, dovevamo allungare la polvere nerastra con alcuni ingredienti. Di solito usavamo quei chicchi rotondi e verdi che vengono chiamati piselli e che a Cuba conosciamo come chícharos. Non posso ricordare quante ore della mia infanzia ho passato macinando gli anneriti chícharos che mia nonna aveva preventivamente tostato. Subito dopo li mescolavamo al prodotto autentico, che era stato raccolto davvero nelle piantagioni di caffè, proveniente da un appetitoso frutto verde o rossiccio attaccato a un arbusto. Il risultato era uno strano infuso molto lontano dal sapore originale, ma che nonostante tutto sorseggiavamo lentamente. Questa pratica non era solo un accorgimento della mia famiglia, ma quasi tutti i cubani erano esperti sul modo di allungare le 12 once mensili di caffè che ci toccavano con la tessera del razionamento. La gente faceva scoperte sorprendenti, come aggiungere semi tostati di grano, utilizzare il residuo di una caffettiera come base per la successiva, aggiungendo alcune erbe tritate e tostate che modificavano leggermente il sapore. Si faceva di tutto pur di non rinunciare a un espresso o a un caffè macchiato, per non lasciarci defraudare da un momento magico durante il quale familiari e amici si mettevano a sedere intorno alle tazze, senza stare a vedere che cosa ci fosse dentro.

 

Alcune settimane fa il Generale Presidente, Raúl Castro, ha annunciato pubblicamente nell’Assemblea Nazionale che cominceranno a mescolare con altri ingredienti la somministrazione sovvenzionata di caffè. Mi ha fatto sorridere sentir affrontare argomenti culinari da un uomo politico, ma soprattutto ha scatenato l’ilarità popolare la comunicazione ufficiale di un comportamento che da molti anni è pratica comune nelle torrefazioni di tutta l’Isola. Non siamo stati soltanto noi cittadini ad aver adulterato per decenni la nostra più importante bevanda nazionale, perché lo Stato ci ha superato in arguzia senza dichiararlo nell’etichetta del prodotto. Per questo colui che un tempo è stato ministro delle forze armate, in realtà ci ha soltanto voluto dire che a partire da oggi le etichette non conterranno più la dicitura “caffè puro al 100%”. Non si potrà usare neppure l’appellativo “cubano” per la distribuzione, perché non è un segreto per nessuno che il nostro paese sta importando grandi quantità da Brasile e Colombia. Un tempo la produzione nazionale delle piantagioni di caffè raggiungeva le sessantamila tonnellate annue, mentre oggi ne raccogliamo appena seimila. I motivi sono molti, ma il problema fondamentale è che i contadini sono poco incentivati a raccogliere i preziosi chicchi sulle montagne. Gli infimi salari e le difficili condizioni di vita nelle zone rurali, hanno prodotto l’emigrazione verso le capitali delle varie provincie frenando al tempo stesso la crescita agricola di certi luoghi. Inoltre, il produttore preferisce destinare il suo caffè al mercato nero invece di venderlo alle imprese statali, perché pagano poco e con molti mesi di ritardo. Il risultato di tutto questo è stato che nelle ultime settimane “il nettare nero degli dei bianchi” - come un tempo lo definivano gli indigeni - ha cominciato a scarseggiare. Le donne di casa hanno dovuto riprendere l’usanza di tostare chícharos per garantire l’amara tazzina del risveglio. Non sappiamo se questa bevanda si possa chiamare caffè, ma è certo che nelle pitture che vendono ai turisti viene mostrata come se lo fosse, come se quel simbolo dell’identità nazionale ancora fosse qui con noi. Una tazza fumante si solleva tra molte tele, ma per fortuna nessun straniero che comprerà il quadro dovrà annusarla e soprattutto non sarà costretto a berne il contenuto.

 

Yoani Sánchez

(da El Comercio, Perù, 3 gennaio 2011)

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

 

Nota: Nell'illustrazione “L’uomo nuovo” di Hernán H., tratto da Gugulandia (Cagliostro Press), un fumetto cubano presentato da Yoani Sánchez.


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