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Lidia Menapace. Le emergenze sociali
14 Gennaio 2011
 

Non c'è bisogno di dire che siamo tutti e tutte a Mirafiori in silenzio, ammirati e commossi davanti agli operai che non vogliono accettare ricatti, offesi di essere considerati merce.

Né che approfittare di Mirafiori per farsi vedere è immondo.

Né che la Camusso ha dato la risposta giusta a Berlusconi, mentre il Pd ancora oscilla vergognosamente: se si pensa che nel 1921 di questi giorni nasceva il Partito comunista d'Italia, che tristezza!

La borghesia, in crisi col suo sistema, mostra il suo volto criminale.

 

Non di questo voglio parlare, bensì dire poche parole sul neonato morto di freddo a Bologna. Ma non è poi un altro discorso.

Adesso comincia la lagna dei racconti, rammarichi, rimpianti, scuse, si espande l'antropologia del barbone, la sociologia della solitudine urbana, le glorie dei servizi sociali, una nausea!

Parte la segnalazione dell'“emergenza”, che regolarmente produce “leggi d'emergenza” che arrivano circa due anni dopo gli eventi e giacciono inutilizzate. Tutto il sud geologicamente franoso insegna. Nonché clamorosamente L'Aquila.

Propongo che, mentre si avvia l'emergenza, si tengano aperte le stazioni ferroviarie e metropolitane la notte e che si facciano tenere accese quelle lampade ad aria calda che consentono di stare al bar sotto i portici anche d'inverno.

Prendere una facile decisione di questo tipo fa parte di una cultura politica che tanti anni fa avevo chiamato “scienza della vita quotidiana”, ne avevo dichiarate Docenti le casalinghe e penso che sia ancora valida e che si troverebbe più a suo agio in uno stato federale dove più e meglio si dispiega l'autogestione che in uno centralistico e burocratico.

Il guaio di non poter trovare asilo nelle stazioni l'ho provato anni fa quando, arrivata di notte in ritardo (era nevicato) dal sud a Verona senza più avere treni per Bolzano, mi trovai a dover stare alcune ore ad aspettare: un disastro, tutto chiuso. Non parlo di bar, nemmeno la sala d'attesa, nemmeno le macchinette con panini o bibite, nemmeno l'atrio della biglietteria.

Mi guardo in giro a cercare un carrello, almeno ci si può sedere: sono tutti accatastati e legati con catene, meno -per fortuna- uno lasciato da un viaggiatore ritardatario. Lo prendo, lo accosto alla parete del corridoio, gelido e pieno di spifferi, che dà accesso alle scale e agli ascensori, che immettono ai binari, mi ci accuccio, tiro la sciarpa sul viso e mi dico: meno male che non spengono le luci (a Milano Lambrate anche quelle) e soggiungo: adesso so pressappoco che cosa vuol dire essere una barbona. Comunque, se avessi dovuto vagare in città, magari avrei preso la polmonite, invece così non sono morta né mi sono ammalata di freddo. Direte che potevo andare in un albergo di quelli che stanno nelle vicinanze delle stazioni: l'ho fatto una volta a Reggio Emilia e sono capitata in un albergo a ore, non è stata una esperienza piacevole. Ma anche allora non sono morta di freddo né di fatica e le lenzuola erano pulite.

 

Lidia Menapace


 
 
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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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