Stig Dagerman
Il nostro bisogno di consolazione
Vårt behov av tröst (1952)
Trad. dallo svedese e introduzione di Fulvio Ferrari
Iperborea, I ed. 1991, II ed. 1993, pagg. 36, € 3,50
Uscendo dal suo studio per andare incontro all’epilogo della sua vita, per mezzo del suicidio rituale, (seppuku), Yukio Mishima lascia un biglietto con scritto “la vita umana è breve ma io vorrei vivere per sempre”.
Potrebbe sembrare una contraddizione per chi si appresta a sottoporsi ad una feroce opera di macelleria. Al contrario, quel commiato è il gesto perfetto al quale la vita e le opere di Mishima avrebbero necessariamente condotto.
Mishima era vissuto da samurai ovvero aveva messo al centro della propria esistenza il duello. Non tanto il duello con la morte dal quale sarebbe uscito logicamente sconfitto, ma quello contro la sottomissione al tempo e alla sua prima legge, la caducità.
Non so dire se Mishima abbia vinto. Non lo so perché non ne ho la competenza e neppure la sensibilità, essendo la mia percezione della vita, assai lontana da quello dello scrittore. I suoi libri, che ebbero maggior successo fuori dal Giappone che entro i suoi confini, il suicidio rituale cui si sottopose, gli hanno garantito la fama, non l’immortalità.
Riconoscere la caducità, piegare il capo per passare oltre lo stretto varco del tempo, non era cosa che Mishima volesse o potesse sopportare. Qualora l’avesse sopportato avrebbe potuto fare scoperte che si accompagnano in via esclusiva all’atto di cadere. Ma questo gesto non gli apparteneva. Il samurai muore in battaglia. Sotto un albero in fiore di ciliegio. Questo è il suo ideale supremo.
Per quanto i due scrittori, Mishima e Dagerman, siano lontanissimi, per cultura, ideologia e per sensibilità letteraria, tre cose, a mio avviso, li accomunano: lo strazio della guerra, il duello con la caducità del tempo e una lucida visione del vuoto.
Mi permetto di consigliare, a questo proposito, il bellissimo libro scritto da Margherite Yourcenar dal titolo Mishima o la visione del vuoto.
Sicuramente la cultura giapponese, favorevole all’atto del suicidio rituale, sostenne fortemente la decisione di Mishima. Il suo suicidio fu un gesto plateale accompagnato dall’occupazione provvisoria di una caserma. Da lì, egli lanciò il suo ultimo messaggio alle truppe. I soldati ascoltarono le ultime parole del pazzo delirante che dall’alto delle mura della caserma sproloquiava di tradizioni e di patria. È pur vero che il suo grande amico e grande scrittore a sua volta, Kawabata, per porre fine alla propria vita, si limitò più modestamente ad infilare la testa nel forno.
Per Dagerman le cose si presentavano meno semplici. Lui era un giovane svedese. La cultura occidentale ripudia il suicidio anche nel caso in cui chi lo mette in atto lo fa per una assoluta necessità di espiazione.
Scrive infatti Dagerman: Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione.
Cercava un’espiazione lo scrittore Mishima? Forse avrebbe faticato perfino a comprenderne il significato. Ma il significato del duello, quello sì, l’avrebbe compreso.
E ancora Dagerman: Non possiedo una filosofia in cui potermi muovere come l’uccello nell’aria e il pesce nell’acqua. Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita….
Quella che per Mishima era la visione del vuoto, per Dagerman è la percezione dell’eternità: …Posso per esempio camminare sulla spiaggia e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento. Cos’è allora il tempo se non una consolazione perché niente d’umano può essere perenne?…
Osservando il bel volto di Stig Dagerman è difficile sottrarsi ad una semplice osservazione: quel viso non è segnato da una sola ruga, da una sola crepa del tempo.
Ciò che lo attrae è la contemplazione della bellezza. In quella contemplazione si esce dal tempo, la bellezza non si lascia misurare. La vita non è qualcosa che si debba misurare. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete…
Ovvero opera fuori dal tempo. Nel vuoto. Nell’eternità.
Ho voluto consapevolmente sottrarre Dagerman alla sua cornice storica. L’ho fatto per l’amore che gli porto e perché considero doveroso riconoscere quanto sia stato autentico il suo duello con il tempo.
Stig Dagerman si definiva anarchico. Non discuto sulla sua passione politica né tanto meno sulla sua ideologia. Queste gli appartengono in dote, per soprammercato.
E tuttavia non mi convincono. Se proprio devo andare in cerca di radici, radici robuste non facili da estirpare, non posso che riferirmi alla sua rigorosa anima protestante.
Quella è, a mio avviso, la fonte autentica della sua necessità di espiare.
L’intero libricino che porta il titolo La nostra necessità di consolazione è un grido d’aiuto, una richiesta di perdono, un bisogno incontenibile d’espiazione.
Il mondo non consola e non perdona. Appena qualcuno si mette in testa di consolare scorre il sangue. Nulla è più intollerabile dell’atto della consolazione. Lo si può accettare solo da colui che si trova sullo stesso livello del consolato o, ancor meglio, al di fuori della sua portata.
Non solo il mondo non consola ma prova in tutta fretta a rimuovere da sé l’atto della consolazione.
Il mistero risiede nel fatto che non vi riesce.
Qualora il dono della consolazione sia puro, non può rimuoverlo.
E quello di Dagerman lo è stato.
Non vi riesce perché quell’atto si pone fuori dal tempo.
Dunque, il poeta Dagerman, lo scrittore Mishima, a modo loro, hanno sconfitto il tempo. Hanno compiuto il gesto perfetto.
Ho scritto all’inizio del mio articolo che forse era possibile un’altra strada: sopportare la caducità del tempo.
Sia Dagerman che Mishima sono state frecce infuocate, meteore di luce conficcate al suolo.
L’espressione più bella usata da Stig Dagerman in chiusura del libro Il nostro bisogno di consolazione è, a mio avviso, la seguente:
…Ma la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente…
Poiché il suicidio di un poeta è sempre affascinante mi chiedo se non vi sia un’altra strada, non meno eroica, forse soltanto non urlata, sommessa.
Penetrare attraverso il varco del tempo, cedere alla caduta, divenire sempre più lieve, un corpo leggero, fino a quando, a pochi pollici dall’abisso, quel corpo così lieve si muti in farfalla o piuma che su quell’abisso gioca, gioca per poi volare via.
Renata Adamo