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Yoani Sánchez. La rivoluzione sepolta
03 Gennaio 2011
 

È venuta giù una cascata da ogni balcone del mio edificio modello jugoslavo, proprio alla mezzanotte del 31 dicembre scorso. I cubani conservano la tradizione di lanciare un secchio d’acqua ogni fine anno, per scacciare tutte le cose cattive che hanno portato i mesi precedenti e attendere “puliti” spiritualmente il gennaio che sta per cominciare. In questa occasione c’erano moltissimi motivi per svuotare i serbatoi delle case e tirare il prezioso liquido dalla finestra, dai terrazzi e dai tetti, compiendo un gesto che dovrebbe servire a farci affrontare meglio tutto quello che sta per accadere.

Per questo ho preso il recipiente più grande che ho potuto trovare nel mio appartamento e insieme a mio marito abbiamo lasciato cadere il contenuto nel vuoto - dal nostro quattordicesimo piano - mentre pensavamo a tutto quello che volevamo lasciare alle spalle. Il primo sole del 2011 ha fatto brillare le pozze che nelle strade non erano state formate dalla pioggia, ma dai nostri desideri.

 

Sono in pochi a confessare a voce alta l’elenco completo delle loro speranze per i prossimi dodici mesi, ma è facile prevedere che ricopra un posto importante la necessità dei cambiamenti politici a Cuba. Ognuno chiama il desiderio a modo suo: “che tutto questo finisca”, dicono alcuni, “che le riforme rauliste riescano a migliorare le nostre vite”, sostengono altri, oppure “che il 2011 sia l’anno che da tempo attendiamo”, pronostica in modo sibillino chi da tempo ha perduto pazienza e fede. Curiosamente la parola “rivoluzione” è assente da certe predizioni popolari, perché la maggior parte dei cittadini ha smesso di considerarla un concetto dinamico, vivo, in trasformazione. Quando i cubani si riferiscono al modello vigente nel paese, lo fanno come se si trattasse di una struttura inamovibile, come se fosse una rigida camicia di forza che difficilmente potrà adattarsi alle nuove domande del secolo XXI.

 

Tutte quelle idee di rinnovamento che sono giunte insieme ai giovani barbudos calati dalla montagna, hanno lasciato il posto a un governo composto da ultrasettantenni al potere privi di fiducia negli innovatori. Tuttavia, la retorica ufficiale continua a citare il primo gennaio di ogni anno come il compleanno di una creatura viva, quando in realtà è solo l’anniversario di qualcosa che morto da tempo. La rivoluzione è stata sepolta dall’immobilismo, il progetto sociale giace sotto terra e la sola cosa che ci chiediamo è quale data dobbiamo mettere sulla sua lapide. Per migliaia dei miei compatrioti la Rivoluzione è morta nel 1968, quando Fidel Castro applaudì l’ingresso dei carri armati sovietici a Praga. Il forte abbraccio che calò sopra di noi dopo il triste evento, l’onnipresenza del Cremlino con le migliaia di tonnellate di petrolio che giungevano ogni anno, con gli abbondanti sussidi e le richieste geopolitiche, finirono per annullare ogni traccia di spontaneità. Il così detto Quinquennio Grigio spense la luce nella cultura, dove il realismo socialista tentò di tagliarci le ali della creazione e di ridurci alle storie trionfaliste che avevano come protagonista il mai realizzato uomo nuovo. I miei genitori, dal canto loro, videro la fine della rivoluzione nei primi mesi del 1989, durante il processo per narcotraffico contro il Generale Arnaldo Ochoa. Le fucilazioni successive e le purghe nel Ministero degli Interni, fecero capire a molti che la brama di potere veniva prima di ogni ideale, prima di tutti i manuali di marxismo e comunismo scientifico che ci avevano fatto studiare a scuola. Per la mia generazione il requiem della Rivoluzione ha trovato conferma alcuni anni dopo, con le botte e le pietre ricevute da chi scese nelle strade avanere per protestare durante l’agosto del 1994. Molti cubani partirono da ogni punto del litorale a bordo di rustiche zattere, portandosi via buona parte delle illusioni di chi credeva che questo fosse un progetto sociale “degli umili e per gli umili”. Erano proprio le classi più povere a scegliere lo stretto della Florida in quelle giornate di disperazione, rischiando sia le pinne degli squali che di finire nella Base Navale di Guantanamo. Insieme a loro salpò dal territorio nazionale l’ultima possibilità che le nostre autorità proclamassero l’intenzione di governare per tutti i cubani. Per questo motivo adesso resta solo il ricordo, le frasi tipo “ciò che poteva essere e non è stato”, la cronaca - spesso idealizzata - del passato. Mentre la realtà nega ogni parola pronunciata dal palco, il mercato nero si estende come opzione di sopravvivenza, l’apatia getta il suo acido corrosivo sulle intenzioni di mobilitarci ideologicamente.

È un lungo funerale che non finisce mai, dove i familiari più affezionati dello scomparso non si decidono a coprire di terra la bara. Alcuni - ma sono una minoranza - credono ancora che la defunta Rivoluzione potrà rialzarsi dal feretro, reinventare se stessa, scrollarsi di dosso le rughe e i mali cronici. Assistiamo alla sepoltura con alcuni interrogativi che ci assillano: “Cos’è andato male? Quando la Rivoluzione si è trasformata in cadavere?”. Sciogliere questi dubbi può essere di vitale importanza per il nostro futuro nazionale. In parte già sappiamo che nella morte hanno giocato un ruolo determinante alcune malattie croniche come il personalismo, la burocrazia, l’essersi consegnati a una potenza straniera e l’aver copiato un modello che sembrava buono solo nei libri di testo. Malgrado ciò, non sappiamo ancora se la spinta finale l’abbiamo data noi stessi, se sono state le nostre mani e le nostre menti a soffocare definitivamente la creatura che volevamo creare, o se nella genetica del processo erano insiti i cromosomi del fallimento.

 

Yoani Sánchez

(da El Comercio, Perù, 3 gennaio 2011)

Traduzione di Gordiano Lupi


 
 
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