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Caso D'Elia: più degli avversari sono da temere gli "amici"?
Marco Taradash
Marco Taradash 
19 Giugno 2006
 

La questione riguardante l’elezione di Sergio D'Elia a segretario di presidenza della Camera ha scatenato una ridda di affermazioni da parte di avversari e nemici, atteggiamenti che ci si possono tranquillamente aspettare da giustizialisti ai quali possono essere contrapposte tutte le argomentazioni di uno stato di diritto.

A riguardo preoccupano di più le affermazioni di coloro che si potrebbero considerare politicamente “amici”: coloro che si qualificano come garantisti e che si sono esercitati anch'essi sull'argomento ed in alcuni casi con capacità di ambiguità o cerchiobottismo che meritano di essere citate.

 

La prima interessante è quella di Marco Taradash, già esponente radicale ed attualmente militante Riformatori liberali, il quale (sul sito www.riformatoriliberali.org) scrive:

«Io credo che la differenza fra il giudizio morale e la tutela giuridica sia fondamentale per non esaurire la forza spirituale della democrazia liberale (qualcuno direbbe: dell’autonomia della politica) [...] Forse una seconda lettera al Parlamento, più severa verso il proprio passato e più generosa verso il suo presente di quanto non sia stata la prima, ci aiuterebbe a comprendere meglio».

Sinceramente non mi è chiaro cosa Taradash voglia capire meglio.

Se è vero che la lettera che D'Elia inviò (con altri esponenti di Prima linea nel 1987) al Manifesto si intitolava “Sulla Nobiltà dell'abiura”, non solo la condanna del passato ed il chiarimento ci sono già stati, ma tale lettera, come scelta spontanea, è ben diversa dall'obbligo morale preteso da Taradash in più ed oltre quello che la persona D'Elia ha più volte dichiarato e scritto (ma soprattutto fatto) nel suo passato con Nessuno tocchi Caino.

Ed è necessario rendersi conto che proprio in una democrazia liberale, pretendendo continue ed ulteriori verifiche della persona, si scatena un perverso meccanismo persecutorio. Chi ha pagato il suo debito con la giustizia ed è quindi cittadino pienamente riabilitato e titolare degli stessi diritti e doveri di chiunque altro, ha il diritto che non si esiga continuamente ed ossessivamente la sua la carta d'identità in un atto discriminatorio inaccettabile.

 

Ma sulla questione D’Elia si cimentano anche persone che con noi hanno intrapreso il percorso della Rosa nel Pugno, tra questi il segretario regionale dello Sdi toscano Pieraldo Ciucchi, che si esibisce con maestria nel cerchiobottismo.

In un comunicato stampa di ieri indirizzato a Capezzone, Villetti e Borselli, il Ciucchi sostiene che «[..] Quello che non ci convince non è tanto il fatto che D'Elia sia stato eletto al Parlamento, quanto piuttosto che sia stato scelto per ricoprire a Montecitorio la carica di Segretario nell'Ufficio di Presidenza [..] è mancata [..] una discussione interna alla Rosa nel Pugno circa l'opportunità di scegliere per la carica di Segretario una persona che, seppure ormai completamente riabilitata ed impegnata nella società, si sarebbe potuta facilmente prestare agli attacchi e alle pressioni che oggi sono sotto gli occhi di tutti».

In una parata di assurdità degne di un film di Fellini si sostiene tutto ed il contrario di tutto: il diritto di essere parlamentare ma non segretario; il diritto di essere eletto segretario ma anche di essere sottoposto (prima) al giudizio dello stesso Ciucchi (!); l'essere uguale agli altri ma doversi nascondere poiché, essendo da taluni marchiato a vita dall'infamia, a rischio «attacchi o pressioni».

Stupisce e rimane incomprensibile come certe osservazioni e certi distinguo possano venire da chi ha vissuto dall'interno e sulla propria pelle l'epoca del craxismo ed i linciaggi politici e giudiziari relativi e trovi oggi, giustamente, il coraggio e la forza di continuare a fare politica senza nascondersi.

 

Non c'è dubbio che ognuno abbia il suo livello di argomentazioni e di cultura liberale e garantista ed in base ad esso si esprima. Quello che però è necessario ricordare a costoro è che se davvero sostenessero una cultura garantista e liberale non potrebbero che riconoscere in D'Elia il simbolo vivente da sostenere, l'incarnazione stessa da mostrare, della sconfitta di quel metodo, di quelle idee, di quel tempo che sono stati gli anni di piombo: una persona che ha scontato la propria pena, rigettato le proprie idee di un tempo e che oggi è perfino modello di comportamento con la sua lotta internazionale contro la pena di morte.

Chi si accanisce contro di lui dimostra una qualche nostalgia per certo tipo di clima da rissa ideologica necessario a coloro che, incapaci di sostenere il confronto politico a causa della mancanza di idee, lavorano per curare quello che gli resta: gli interessi di corte.

Chi invece vive dei distinguo rafforza purtroppo la schiera di coloro che, oggi numerosissimi in Italia, sostengono le regole (liberali e garantiste) screditandole ed inficiandole con le immancabili eccezioni più frequenti delle regole stesse; garantisti e liberali da cui guardarsi.


Guido Bedarida

(da Notizie radicali, 16/06/2006)


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