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Dario de Giacomo. Dopo le esequie
22 Dicembre 2010
 

Lo stanzone della chiesa era affollato di troppe mani, che per l’imbarazzo non sapevano come toccarmi.

Parallelo ad uno dei muri di cinta correva il binario della ferrovia.

Un fischio e l’ingranaggio della sbarra che chiudeva il passaggio a livello ci avvertirono del transito di un treno.

Alcuni mi dissero che quel fischio era l’ultima saluto per me della morta.

Ma lo dissero senza convinzione, per consolarmi.

Lo vedevo che fingevano, volevano soltanto affrettarsi fuori, per godere il resto della giornata, con la mente in pace dal turbamento di qui.

Dopo le esequie rincasai subito, per seppellire tra i filari verdastri degli olivi la vergogna della morte.

Dentro la nostra casa aleggiava il dolore di cose spoglie della sua forma, ridotte solo a impronte sulla pelle lucida del divano.

Il malessere, spesso come mura, iniziava a radicarsi nella profondità delle viscere, impossibile da scalfire.

All’esterno il sole fumigava sulla pietraia, riflettendosi nelle crepe nerofumo degli olivi.

C’era un odore di sangue nell’aria e sterco di gallina, il limare basso delle cicale che alleggeriva il tempo di una sosta e c’era ancora il dolore, ma diverso, che aveva un sapore dolciastro e gentile.

Disteso immobile lo ascoltavo disegnare brividi cadenzati sulla mia pelle e pensavo che questa striscia di terra, coltivata a olivi, sarebbe diventata il mio ultimo attaccamento terreno, dopo le esequie.

Una finestra scavata nel fianco della collina, come la cella di un monaco, dove quando arrivavano di quei momenti in cui la fragilità umana mi costringeva a voltare la faccia, in pochi avrebbero sostato qui e solo di rado: qualcuno sarebbe salito fin quassù per offrirmi uno spicchio di mondo, come si porta un pezzo di formaggio al convento per carità?

Il vento intanto oscillando sui profumi delle erbe colorate, continuava a sfregiarmi la faccia.

Ora, dopo la sua morte, benché qui non arrivasse più nulla e nessuno venisse, mi afflosciavo sotto gli alberi, conservando sempre, anche nel sonno, la sveltezza dei muscoli tesi.

Ascoltavo gli odori diversi e guardavo verso la linea dell’orizzonte per cercare qualcosa di cui ignoravo l’esistenza e che non riuscivo più a trovare.

Fu solo alla fine che mi arresi alla consapevolezza di quel piacevole dolore che il tempo non sarebbe scivolato mai più nel grembo di mia madre, tra le sue braccia.

Dopo la morte di mia madre nessuna donna avrebbe accolto in grembo le soste del mio tempo.

Era quella una sensazione di totale abbandono al sonno, nel silenzio di una finestra socchiusa tra il mio sguardo e il suo.

Il luccichio della marina, appena agitata dal sole, penetrava dentro le finestre, schermate da sottili tende bianche, ricamate di motivi geometrici nuovi e sconosciuti, rimbalzava sulla pietra rossa del pavimento rinvigorendo i suoi colori.

Mi svegliavo ascoltando i rumori di un’ora conosciuta, alleggerito di ogni passato e con una sterminata capacità di creare qualunque futuro.

Conoscevo bene il posto dove trovare lo sguardo della madre.

Ma ora la speranza intatta di tutti i futuri possibili era stata violata.

E il pensiero della mia unicità, tradito, mi incalzava in cerca di una soluzione all’impotenza nel lanciare il richiamo di quel nome, che era il suo.

A mano a mano che la luce sfioccava, il ricordo cresceva, si accresceva, come le nubi settembrine dopo la prima acqua d’agosto, di madri a scolare piatti nell’ora del riposo.

Di giovani vite che invecchiano solo quando pronunciano quel nome di madre, a cui nessuna risponde più.

Il dolore continuava la sua lotta con l’incoscienza, oscillavo tra il riposo sotto gli alberi e la tentazione di entrare in casa.

Dal basso salivano i fumi d’incenso della processione di San Rocco che sostenevano il suono delle campane e il cielo ingrigiva, inzaccherava di sprazzi freddi le stanze della nostra casa.

Decisi di rientrare. Nell’ingresso provai a chiamare un nome.

Mamma – accennai timidamente. Le luci erano accese e le finestre chiuse.

Chiamai di nuovo – Mamma.

Il mio tempo si raffreddava nell’attesa inutile del richiamo.

Mamma.

Che c’è?

da lontano mi rispose una voce chioccia di donna vecchia.

Svegliati!

Allora mi sentii scuotere debolmente da due mani calde.

E mi svegliai. Con un cielo grigio di nuvole sopra la testa e un tempo leggero dietro la nuca.

Ciao mamma – sorrisi leggero.

 

Dario de Giacomo


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