Corruzione, arroganza del potere, totale scollamento tra politica e gente comune. E ancora: ostentazione della ricchezza e culto dell’apparire, crisi economica e povertà diffusa, latitanza della “società civile”. Quando penso, preoccupato, alla Milano attuale, mi viene in mente il periodo spagnolo. E nonostante sia sconsigliato, per uno storico, fare paragoni tra epoche così lontane, mi pare indiscutibile l’esistenza di punti in comune tra questi due momenti di decadenza della nostra città, allora come oggi in crisi d’identità.
A quei tempi, tutto cominciò con Carlo V che, dopo la morte nel 1535 di Francesco II, l’ultimo erede della dinastia sforzesca, occupò con qualche dubbio (i milanesi avevano fama di popolo orgoglioso della propria libertà, facile alla rivolta) un territorio che costituiva un corridoio fondamentale per collegare i nuovi possedimenti asburgici. Iniziava così il periodo della Milano spagnola, caratterizzato da due secoli di gravi problemi economici e sociali che raggiunsero il loro apice nel 1600, quando la città si ritrovò in ginocchio sia per la crisi dei suoi dominatori (causata dal graduale esaurimento dell’oro americano e dalla perdita del controllo delle rotte nell’Oceano Atlantico a favore degli inglesi) sia per la loro ottusità che li portò ad attuare, nei confronti di Milano, una politica di puro sfruttamento.
Molti, di fatti, furono gli errori dei governanti spagnoli. I quali, ad esempio, praticarono una politica protezionista a favore delle armi di Toledo, eterna rivale della nostra città, oppure dei loro tessuti (dei 70 lanifici presenti a Milano nel 1600, nel 1662 ne restavano solo 5), vietandone ai milanesi l’esportazione. Ciò danneggiò notevolmente gli artigiani e i commercianti nostrani che costituivano l’ossatura dell’economia cittadina, colpiti pure dall’inasprimento dei dazi doganali e soprattutto delle sempiterne tasse (che gravavano praticamente su tutto, cavalli, farina, sale, pane: nel 1655 si celebrò persino una messa per chiedere il condono!), richieste mensilmente, in anticipo e soprattutto indirette. Questa situazione portò all’aumento della disoccupazione che, unito all’impennata a volte indiscriminata dei prezzi (nel 1608 del 100% per lo scarso raccolto), affamò buona parte della popolazione, così come le molte guerre. L’impero spagnolo, ormai, era in evidente crisi e per ben tre volte, nel 1635, nel 1655 e nel 1658 i francesi si presentarono minacciosi alle porte della città (la prima volta, per la difesa vennero arruolati i Milanesi da 18 a 50 anni, mentre nelle altre vennero armati persino i preti).
Tuttavia, mentre i meno abbienti assistevano impotenti ad un netto peggioramento delle loro condizioni di vita, le casse delle classi elevate godevano di ottima salute, sia per la quasi totale esenzione dalla tassazione dei patrimoni sia per i benefici derivanti dall’acquisto di grandi proprietà terriere, un investimento sicuro che permetteva rendite consistenti. A fianco della Milano povera, quindi, esisteva una minoranza di ricchi del tutto indifferente ai destini dei propri concittadini, che ambiva solo all’acquisizione di cariche pubbliche o titoli nobiliari (anche con matrimoni di convenienza con gli spagnoli, tanto che a un certo punto vennero addirittura vietati) e che si poteva permettere un lusso sfrenato, mostrato non tanto al di fuori, ma soprattutto all’interno di splendidi palazzi. Una ricchezza ostentata con abiti sontuosi e belle carrozze (simbolo di distacco dalla plebe), dall’estendersi della moda delle case in campagna (come, ad esempio, villa Litta ad Affori), dalle numerose scuole di ballo: la forma sostituiva una sostanza che non esisteva più
Due Milano assolutamente estranee convivevano perciò nella stessa città. Dove, tra l’altro, regnava la corruzione, l’impunità per le classi alte che spesso si segnalavano per la mancanza di rispetto delle leggi. Un comportamento favorito anche dall’assenza dell’amministrazione pubblica, connivente o impegnata a spendere esclusivamente per grandi feste auto celebrative (adesso si chiamano “eventi”), come la simulazione dell’esplosione dell’Etna o la costruzione di un Duomo “barocco” nel 1646 per la moglie di Filippo IV. Mentre, al contrario, la microcriminalità dilagante, provocata anche alla miseria, veniva duramente repressa: le prigioni, infatti, erano stipate di colpevoli di piccoli reati (rei soprattutto di non potersi permettere avvocati o protezioni), e durante il XVII secolo le condanne a morte furono addirittura 7 all’anno (con il boia, orgoglio della città se bravo ad adempiere ai propri doveri, ben pagato secondo i vari tipi di condanna).
Eppure, in questa triste Milano non ci furono mai rivolte, obiettano alcuni storici “revisionisti”, sostenendo che per questa ragione, in fondo, in città evidentemente non si doveva vivere poi così male. In verità, esplosioni di collera popolare ci furono eccome, come ad esempio la rivolta del pane di manzoniana memoria. Ed è comunque normale che si trattasse di fenomeni estemporanei, perché mancava una “coscienza politica”, un’unione e una lucidità di pensiero da parte dei poveri nell’individuare e combattere i veri responsabili della situazione. E l’ignoranza in cui veniva tenuta buona parte della cittadinanza faceva sì che la plebe incanalasse il suo malcontento durante le già citate esecuzioni capitali, in cui poteva sfogare i suoi istinti più bassi nei confronti di un capro espiatorio (il più delle volte miserabile tra miserabili). Oppure che si scatenasse durante il Carnevale (che vedeva il suo apogeo nel Corso di Porta Romana, la via più “in” della città) o la Festa del Perdono, che a volte vennero persino vietati per i disordini che provocavano.
Alla popolazione, poi, mancavano i punti di riferimento (i “partiti” di cui fidarsi). Il Senato milanese, composto dalle famiglie che “contavano”, era del tutto slegato dai problemi della vita quotidiana e nonostante avesse la possibilità di opporsi alle direttive spagnole, non lo faceva mai appiattendosi ai desideri degli occupanti, diventando -per convenienza- anch’esso responsabile dello sfacelo. E pure un altro possibile alleato delle persone comuni, il clero, si caratterizzava per il malcostume (si resero necessarie grida per vietare ai preti di portare lo spadino e impedire il concubinaggio) e per il fenomeno delle facili conversioni (in città esistevano 60 monasteri femminili e 40 maschili, statisticamente 1 prete/suora ogni 124 milanesi!), dovute a obblighi familiari (come la monaca di Monza, che non fu assolutamente un caso isolato) o per sfuggire alla miseria. E che questa piaga fosse dilagante lo testimonia l’energia che Carlo Borromeo impiegò per “rieducare” il clero con l’istituzione di seminari e un rigoroso controllo delle parrocchie.
Insomma, indifesa contro la delinquenza comune, i soprusi dell’aristocrazia e dei suoi “bravi” (nonostante le leggi vietassero il loro “ingaggio”), afflitta dalla crisi economica e dalla fame (la vita media si attestava sui 28 anni per gli uomini e 34 per le donne), falcidiata dalla peste che infuriò per due volte in modo drammatico (nel 1576-77 sotto Carlo Borromeo e nel 1629-33 con il Cardinale Federico a vegliare sulla città in agonia: alla fine i morti furono 86.000), la popolazione milanese si ripiegò lentamente su se stessa, disperata. Un avvenire, un colpo d’ala che facesse risorgere la città, pareva impossibile.
Ma poi, verso la metà del ‘700, eccolo giungere grazie alle riforme teresiane e al diffondersi delle idee illuministe che avrebbe condotto alla “Scuola di Milano”. La città, finalmente, imboccava la strada che l’avrebbe riportata ad essere una delle più belle città d’Europa, esattamente come nel periodo delle Signorie.
Sinceramente, mi chiedo quanto dovremo aspettare noi, per vedere una Milano migliore…
Saludi.