Il silenzio è nelle parole, ed è condizione imprescindibile per ascoltarle. In esso la parola prende corpo, e questo corpo le dà voce risuonando nel mondo quell’assenso alla vita che esercita sé stessa.
È un silenzio discreto, che non s’impone, si concede solo a seguito di un permesso. Bisogna lasciarlo essere, senza aspettare né volere che sopravvenga. Quel silenzio non sopravviene, semplicemente è, accade; semplicemente si mette in movimento e accoglie in sé la parola, rivitalizzandola, cancellandone ogni segno di stanchezza. Quando succede allora la parola si apre come nuova, entra nel flusso della poesia e nel suo corso travolge ogni approdo di senso.
Questo silenzio ospitato nelle parole non è pausa di rumori, di voci, di suoni; è piuttosto il luogo dove accade che il mondo perda quei significati che ci arrabattiamo a volergli dare, e acquistando la consapevolezza che nessun dover essere è fine dell’essere, allora riesca ad aderire a quel progetto senza progresso che è la vita. Attraverso la parola poetica la vita non si spiega, ma si di-spiega per essere colta nella sua evidenza di enigma senza ragioni, nel senso che non c’è alcuna ragione in grado di dirla, se dicendola intende governarla. Con ciò non si vuole attribuire irrazionalità alla vita, ma si desidera riconoscerle il suo diritto a non lasciarsi subordinare ai principi logici d’identità, di non contraddizione, del terzo escluso.
Il silenzio allora dà spazio alla parola poetica, liberandola dal claustrofobico percorso tra principio (causa prima) e fine (causa finale), e pertanto esce dalle regole orientate della narrazione per adeguarsi al flusso discontinuo della descrizione. Lì, la parola non è più (o non è soltanto) espressione del logos, ma semplice relazione, perché la parola poetica non porta conoscenza, ma porta a conoscenza. Nessuna teleologia a dominarne e a indirizzarne il corso, così come nessun casualismo a confonderne il percorso, ma scelta del modo più concorde per adeguarsi alla vita, adattarsi al suo imprevedibile movimento.
Quindi, neppure nessun misticismo in ombra. Se la parola poetica (sul piano formale) entrasse in quell’orbita sarebbe nuovamente orientata, e perderebbe la facoltà propria di abbandonarsi alla corrente della vita, che non significa essere alla deriva, ma accogliere in sé quel moto spontaneo e al contempo saggio (non sapiente), accettarlo equilibrandosi, traducendolo in definitiva nell’andamento stesso della poesia, nel suo ritmo, nella sua armonia.
Per questo la parola poetica in sé non esiste, ma si forma in relazione alla poesia, nella polarità collaborativa e non oppositiva tra parola e silenzio che si sviluppa nel tempo che occorre per testimoniare un’emozione, un’empatia, per svolgere infine quel processo euritmico fatto di sentire e dire.
La parola poetica non argomenta, non decide, ma è decisa dal divenire stesso della poesia, e dall’energia che si sprigiona dal continuo defluire e confluire di sensazioni dalla parola al silenzio, dal pieno al vuoto quindi, che continuamente inverte il suo andamento come uno sciabordio che trasforma il pieno in vuoto e il vuoto in pieno, la parola in silenzio e il silenzio in parola. Al punto che solo l’ascolto potrà distinguerne la natura. Ma è distinzione né chiara né confusa, è una distinzione che contempla le polarità in unità, senza però alcuna sintesi, lo stesso che si presenta allorquando toccando sentiamo di essere toccati, oppure essendo toccati sentiamo di toccare.
C’è un’intelligenza del sentire che va ascoltata, e detta. E quando viene detta produce e reclama altro ascolto. Le parole sono nel silenzio, e sono condizioni imprescindibili per dirlo.
Angelo Andreotti
(da Accademia del silenzio, 12 dicembre 2010)