Fini, intervenendo ad un incontro del Senato Accademico di Lecce, in merito alle contestazioni al ddl Gelmini ha detto: «Bloccare la riforma significherebbe fare un errore, la riforma verrà approvata martedì prossimo ed è una delle cose migliori di questa legislatura», ha poi continuato: «la riforma non è la migliore, ma almeno parte da un principio insindacabile, quello del merito», invitando gli studenti «a contestare eventualmente il modo in cui verrà applicata, ma non lo spirito stesso della riforma, perché involontariamente significa difendere l’esistente, che viaggia all’insegna del conservatorismo».
È evidente che il presidente della Camera, in piena propaganda preelettorale per il suo Futuro e Libertà, non può esimersi dalle logiche qualunquiste con cui tutti i governi hanno sino ad oggi gestito la cultura, la ricerca e lo sviluppo tecnologico, sminuendone il credito nei confronti di un opinione pubblica disattenta e poco informata.
Una riforma universitaria basata sul merito è, non solo auspicabile, ma urgente e necessaria. Tuttavia è evidente che non può essere questa la strada, per due motivi: manca il metro con cui verranno definiti i meriti, mancano i fondi necessari a garantire questo tipo di riforma. L’illusione del “costo zero” senza un’ idea definita di dove il sistema cultura e ricerca voglia andare finirà per essere esclusivamente gestito dalle elargizioni private portando, di fatto, ad una privatizzazione del mondo accademico e della ricerca scientifica.
Nulla di male se questo avvenisse in un paese dove i privati sono interessati, prima che costretti, a promuovere la cultura e garantire il diritto allo studio. Ma in un paese dove le realtà industriali si sono distinte maggiormente per la rincorsa all’assistenzialismo statale e l’elusione fiscale, la mancanza di un disegno e di una strategia preoccupa e non poco chi nella ricerca e nella cultura ha investito e continua ad investire le proprie capacità ed attitudini.
L’azzeramento del diritto allo studio abbatte il concetto di merito introducendo un vergognoso filtro basato sul censo, e sull’appartenenza sociale, e dimostrando come le scelte sbagliate di una classe politica inetta e non selezionata possano arrivare a distruggere decenni di evoluzione democratica di un paese.
Una riforma mal fatta, caro presidente, non è assolutamente meglio di niente, anche perché sino ad oggi l’accademia italiana, con tutti i difetti e problemi che non voglio assolutamente nascondere o negare, ha comunque prodotto eccellenze in tutti i settori. L’università non ha bisogno di riforme punitive ma di una strutturazione sistemica che coinvolga anche il mondo produttivo. l’Italia è disinteressata alla ricerca perché e un paese che non produce tecnologia, un paese che non punta seriamente alla green economy, un paese governato da ministri che affermano che con la cultura non si mangia.
Probabilmente il problema vero è che invece con la politica si mangia ed intorno alla politica si mangia anche troppo. L’indigestione di affari e connivenze ha per troppo tempo annebbiato le decisioni di un paese che oramai ha terminato la fase di stallo per iniziare quella del rapido declino.
Se l’Italia è sottoposta al pubblico ludibrio di tutti i paesi del mondo non è certo per il valore della sua classe accademica e degli scienziati che ha prodotto quanto, piuttosto, per i vari Bunga Bunga e le irrazionali riforme come quella che vi accingete ad approvare e che servirà unicamente come ennesimo spot nazional-popolare da utilizzare nelle prossime campagne elettorali.
Per concludere, il pesante silenzio-assenso della CRUI rende poco sostenibile affermare che si tratta di una riforma contro il baronato e non vi autorizza a considerare gli studenti, i ricercatori ed i precari come masse strumentalizzabili piuttosto che come portatori primari di diritti e legittime aspettative.
Claudio Santi