Lunedì sera, a “Vieni via con me”, ho detto che il corpo delle donne è un campo di battaglia, da tempo immemorabile e in ogni continente. Alcuni commenti sembrano suggerire che ho delineato un quadro troppo nero o «lagnoso» della situazione. Non credo.
È verissimo che in molti paesi le donne hanno conquistato nuove libertà e i movimenti al femminile sono i più vivaci ed innovativi. Penso in particolare all’Africa, al Medio Oriente e non solo. Ma proprio questa loro tenacia nel voler cancellare pratiche consuetudinarie violente e nefaste, questa loro forza e determinazione nel voler vivere rispettate come persone, dà il segno tangibile della vastità del problema.
Oggi è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Una buona occasione per far mente locale sulle varie forme in cui si manifesta: dalla discriminazione di genere sul posto di lavoro agli stupri di massa documentati dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite, dalle migliaia di Sakineh alla violenza domestica – «Gli amorosi assassini» come titola un documentatissimo libro di un gruppo di scrittrici - fino alla ventilata legge sui «consultori», a prima firma Olimpia Tarzia, qui nel Lazio. Ma per una battaglia in particolare questo è un periodo decisivo: quella contro le mutilazioni genitali femminili (MGF). In Europa, Aidos e Amnesty International hanno lanciato la campagna «End FGM» per ottenere una direttiva europea sulla prevenzione della pratica e, a New York, diversi governi - tra cui il nostro - stanno lavorando assiduamente perché l’Assemblea Generale dell’Onu, attualmente in corso, adotti una Risoluzione per la loro messa al bando universale.
Gli esiti dell’azione diplomatica a New York non sono però scontati, con alcuni paesi che resistono, ricorrendo agli alibi più diversi. Per questo, personalità di rilievo internazionale e leader politici di 42 Paesi hanno sottoscritto un appello dell’associazione radicale Non c’è Pace Senza Giustizia e del Comitato Inter-Africano contro le Pratiche Tradizionali: Clio Napolitano e le First ladies di Burkina Faso, Uganda, Guinea Bissau e Benin, insieme a Premi Nobel, ministri, parlamentari e attivisti per i diritti umani chiedono a tutti i governi degli Stati membri di compiere i passi necessari per l’approvazione della Risoluzione.
Il vantaggio di questo risultato è triplice: rafforzare la legittimità delle leggi già adottate a livello di singoli Stati; spingere tutti quei Paesi non ancora provvisti di legislazione ad attivare i propri Parlamenti; conferire ulteriore efficacia alle dichiarazioni già adottate in sede Onu in materia di tutela dei diritti delle donne.
Inoltre, contribuirebbe a far piazza pulita di una visione stereotipata delle MGF, spesso erroneamente ricondotte a questioni di carattere culturale o religioso, oppure relegate esclusivamente all’ambito sanitario, che pure esiste ma che di certo non ne esaurisce la portata. Una Risoluzione di messa al bando significherebbe riconoscere le MGF per quel che sono, una patente violazione dei diritti umani fondamentali di donne e bambine.
Ma c’è un altro aspetto che merita attenzione. Per tutte quelle attiviste che hanno avuto il coraggio di affrontare apertamente la questione in contesti dove parlare di MGF voleva dire infrangere una secolare «regola del silenzio», rischiando talvolta la propria vita, una ferma presa di posizione della comunità internazionale avrebbe non solo l’effetto di legalizzare il loro impegno, ma di ricollocarle all’interno della società «dalla parte del giusto», dalla parte della legge. Persone che probabilmente non avranno mai occasione nella loro vita di visitare il Palazzo di Vetro ma che credono che le Nazioni Unite e i suoi Stati membri abbiano il dovere e gli strumenti per fare del mondo un posto migliore in cui vivere.
Emma Bonino
(da l'Unità, 25 gennaio 2010)