Radicaliperugia.org (web dell'Associazione Giovanni Nuvoli) pubblica oggi un articolato commento di Alessandra Pioggia (foto), ordinario di Diritto Amministrativo presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia.
Prendendo spunto dall’approvazione da parte di oltre una settantina di Comuni che hanno istituito i registri comunali delle dichiarazioni anticipate di trattamento, la Professoressa Pioggia commenta la circolare governativa che di fatto tenta di vietare e annullare la validità degli stessi registri. Le conclusioni sono chiare. Alla domanda «Cosa possono fare allora i Comuni che hanno già istituito o stanno istituendo il servizio di cui si discute?», risposta: «Non tenere in alcun conto una circolare che, alla luce di quanto sopra considerato, offende la loro autonomia e in ogni caso appare priva di contenuti vincolanti».
Buona lettura
Associazione Giovanni Nuvoli
I registri comunali
delle dichiarazioni anticipate di trattamento
Mentre il disegno di legge in materia di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento è da tempo fermo in commissione alla Camera dei deputati, il Governo interviene sul tema con una circolare datata 19 novembre 2010.
La nota del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, firmata anche dai ministri dell’Interno e della Salute, è rivolta ai Comuni e in particolare a quelli, oltre settanta, che hanno istituito nel corso di questi ultimi due anni registri per raccogliere i nominativi di coloro che abbiano redatto le proprie dichiarazioni anticipate di trattamento e, in diversi casi, anche le dichiarazioni stesse. L’intento è quello di scoraggiare la diffusione di iniziative che rispondono ad una crescente pressione popolare.
L’intervento dei ministeri coinvolti per arrestare tale processo lascia però decisamente perplessi sotto diversi punti vista.
Il primo è relativo allo strumento. Una circolare, peraltro piuttosto confusa nei suoi contenuti, non appare infatti il mezzo adeguato a contenere le iniziative comunali in ordine alla istituzione di registri delle dichiarazioni anticipate di trattamento. A questo fine occorrerebbe infatti una legge che istituisse un registro nazionale superando l’utilità di quelli locali, magari prevedendo anche, visto che il legislatore statale è pienamente competente in questo senso, conseguenze in termini di certezza giuridica ed efficacia probatoria dei testi depositati, requisiti di contenuto, modalità di formazione della volontà dei dichiaranti, ecc. In realtà, a quanto consta, il legislatore non sembra avere alcuna fretta di intervenire in materia. Dopo l’improvvisa accelerazione delle iniziative in merito, spintosi fino all’impiego improvvido e successivamente bloccato della decretazione di urgenza, il dibattito istituzionale si è interrotto senza segnali di ripresa. Il sospetto è che la grande attenzione che un anno fa si riservò al tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento e della rinuncia alle cure fosse dovuta ad esigenze per così dire di comunicazione politica, più che al legittimo intento di regolare l’esercizio di un diritto che il nostro Paese ritarda ad assicurare con la pienezza con la quale è riconosciuto in buona parte dell’Europa.
La circolare, quindi, si profila essenzialmente come un tentativo di mettere definitivamente a tacere il dibattito in materia, anche in quelle sedi in cui la vicinanza con i cittadini consente alla voce della collettività di raggiungere più facilmente le istituzioni pubbliche.
Siffatta operazione è però affidata, come si diceva sopra, ad uno strumento del tutto inadeguato.
La circolare, infatti, è strumento che presuppone un rapporto di gerarchia o quantomeno di direzione fra chi la emana, che è in posizione sovraordinata, e chi la riceve, che è in posizione sottoordinata. Nel rapporto fra Stato e amministrazioni comunali l’impiego di tale strumento è ammissibile unicamente con riferimento alle funzioni che il sindaco esercita quale ufficiale di governo e perciò “per conto” dello Stato. Al di fuori di ciò, la pariordinazione fra livelli di governo sancita dall’articolo 114 della Costituzione impedisce di ritenere la circolare uno strumento idoneo a regolare i rapporti istituzionali fra di essi . Tale mezzo, quindi, non ha alcuna efficacia di per sé e, al più, può valere quale strumento interpretativo di una fonte competente a regolare le relazioni fra Stato ed enti locali, quale sarebbe, se ci fosse, la legge.
Ora, a ben guardare, i redattori della circolare cercano di ovviare a questo problema argomentando nel senso che proprio la mancanza della legge sarebbe un dato da interpretarsi nel senso dell’impossibilità per i Comuni di farsi carico di un compito che il legislatore non ha previsto e quindi non ha affidato a nessuno. Nel testo espressamente si dichiara che «nessuna norma di legge abilita il Comune a gestire il servizio relativo alle dichiarazioni anticipate di trattamento».
Il principio al quale si pretende di fare riferimento, quindi, è quello per cui una amministrazione comunale non potrebbe esercitare alcuna attività di servizio alla quale non fosse espressamente abilitata dalla legge. Al legislatore nazionale in questa prospettiva spetterebbe la decisione in ordine alla dimensione e alla quantità di ciò che un Comune può fare, una decisione che invece il nostro ordinamento ha già assunto e formalizzato in una fonte che vincola lo stesso legislatore. Se si legge l’articolo 118 della Costituzione, infatti, si ricava un principio del tutto opposto a quello adombrato nella circolare. Ai sensi del dettato costituzionale, «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza». È evidente quindi che della legge c’è bisogno se mai per “sottrarre” ai comuni la possibilità di svolgere certe attività, non certo per abilitarli a ciò che già la Costituzione li rende idonei a fare. Ma c’è di più. Perché una legge che riconosca una funzione amministrativa ad un livello di governo diverso da quello comunale possa considerarsi costituzionalmente legittima, occorre che la scelta effettuata si giustifichi con il fatto che lo svolgimento di quella attività amministrativa si lega ad esigenze alle quali la dimensione comunale non è adeguata. Non c’è dubbio che una considerazione del genere potrebbe valere anche per la tenuta dei registri delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Gli argomenti a favore di un registro nazionale e non comunale potrebbero essere molti e anche convincenti: la uniformità delle modalità di conservazione dei documenti, la loro reperibilità in maniera indifferenziata su tutto il territorio nazionale, l’accessibilità uniforme del registro, ecc. Ma, si ribadisce, la legge non c’è, quindi queste considerazioni restano argomenti di un discorso non giuridico, ma di mera opportunità e come tali inidonei a sostanziare un divieto di svolgimento di una qualsiasi attività amministrativa in materia, a meno di non privare completamente di significato il primo comma dell’articolo 118 della Costituzione.
La circolare del resto non cita affatto tale disposizione, ma pretende di fondare il proprio intervento dissuasivo su un’altra previsione costituzionale: l’articolo 117, comma secondo, lettera p), che, disciplinando le competenze normative dello Stato, riconosce ad esso la possibilità di dettare leggi in materia di «funzioni fondamentali dei Comuni, Province e Città metropolitane».
Tale riferimento appare tuttavia di nuovo del tutto inconferente al tema. La previsione citata attribuisce alla legge statale la competenza ad individuare un insieme di funzioni che non possono che essere proprie degli enti locali e rispetto alle quali si pone quindi un limite, valevole innanzi tutto per il legislatore regionale, alla loro attribuzione ad altri livelli di governo. Per dirla in altro modo, la previsione alla quale fa riferimento la circolare è quella che serve a consolidare un patrimonio di funzioni indiscutibilmente proprie dei Comuni e non ad attribuire ad essi compiti nuovi. Quindi, la mancanza di una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento non vale neanche in questo caso come impedimento all’esistenza di registri comunali in materia.
Un’altra considerazione va fatta poi in relazione al tipo di attività alla quale la circolare si rivolge, qualificandola a volte come funzione, a volte come servizio.
Se il primo comma dell’articolo 118, trattando di funzioni, fa plausibilmente riferimento sia alle funzioni in senso stretto, sia ai servizi, la differenza fra queste due tipologie di attività nel nostro caso è importante e quindi appare essenziale non fare confusione fra di esse.
Quando si fa riferimento ad una funzione amministrativa in senso stretto, si rinvia all’esercizio da parte di una amministrazione di un potere pubblico, con le relative conseguenze in termini di produzione di effetti giuridici. Il servizio invece si profila come attività di mera prestazione, attraverso la quale una amministrazione mette a disposizione della collettività una utilità, senza modificare la consistenza dei diritti, ma semplicemente rendendone più agevole l’esercizio. Con il servizio, quindi, non si crea un diritto, ma se ne garantisce il godimento. Per intendersi, il servizio di trasporto non crea né modifica il diritto alla libera circolazione dei cittadini nel territorio dello Stato, ma ne rende possibile l’esercizio.
Da tale distinzione discende la conseguenza che per esercitare una funzione in senso stretto occorre che la legge abbia quantomeno previsto le modalità di esercizio del relativo potere e le conseguenze giuridiche che da ciò discendono; per porre in essere un servizio, invece, basta, per così dire, la buona volontà di una amministrazione che decida che una certa prestazione è utile alla propria collettività ed esiste un interesse pubblico a fornirla.
È evidente che qui si sta molto semplificando, non tenendo conto, ad esempio, del fatto che lo svolgimento di una attività di servizio da parte di una amministrazione potrebbe essere imposto dalla legge o incidere sul mercato e sulla concorrenza, e perciò richiedere comunque una legge, ma, ai fini del nostro discorso, si tratta di una semplificazione efficace a cogliere il “cuore” del problema.
Se l’attività comunale di istituzione e tenuta di un registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento può essere inquadrata in termini di mero servizio alla collettività, a maggior ragione la mancanza di una legge non è in alcun modo di ostacolo al suo svolgimento.
Le esperienze comunali in questo senso sono molte e parzialmente diversificate fra di loro. L’essenza appare tuttavia identica: i Comuni che hanno istituito registri di raccolta delle dichiarazioni anticipate di trattamento hanno disposto la fornitura alla loro collettività di una prestazione di servizio, senza alcuna intenzione, né, si aggiunge, legittima possibilità di disciplinare ex novo la materia. Anche laddove la formulazione delle deliberazioni e il tenore letterale dei regolamenti potrebbero far ritenere diversamente, non c’è dubbio che la sostanza sia unicamente questa. In altre parole nonostante la presenza in alcuni casi di dichiarazioni enfatiche sull’autodeterminazione dell’individuo, e sul suo diritto a decidere per sé, l’unico effetto è quello di aver istituito un servizio di raccolta e conservazione di documenti che sono e restano dichiarazioni private. Un servizio certamente utile, ma un servizio che, in quanto tale, non attribuisce a tali dichiarazioni alcun valore ulteriore o diverso da quello che già hanno e che avrebbero anche laddove conservate in altro modo, privatamente o presso un notaio.
In questa prospettiva il riferimento che la circolare in commento fa ai registri di anagrafe e di stato civile non ha alcuna attinenza con il caso in esame. Questi ultimi, infatti, sono registri istituiti dalla legge, la tenuta dei quali non costituisce un servizio, ma una specifica funzione con precise conseguenze di costituzione di certezze giuridiche. Un’altra cosa rispetto ai registri di mera conservazione che i comuni hanno inteso istituire con riferimento alle dichiarazioni anticipate di trattamento. Da questi infatti non deriva alcuna certezza giuridica ulteriore, non discende cioè alcuno specifico effetto probatorio. La loro funzione, quando sia previsto anche il deposito delle dichiarazioni, è di conservare a carico dell’amministrazione delle dichiarazioni personali delle quali, attraverso l’autenticazione della firma del depositante, si certificano unicamente data e provenienza. Lo stesso varrebbe se un Comune, ad esempio, decidesse di istituire un registro di deposito degli statuti delle associazioni culturali presenti sul territorio, o un registro delle deliberazioni delle pro-loco che prevedono feste e sagre popolari. Dalla iscrizione nel registro non discenderebbe alcun effetto ulteriore, né la loro conservazione negli uffici di una amministrazione comunale attribuirebbe a tali atti privati una efficacia diversa da quella che già hanno.
Vietare l’istituzione di questo tipo di registri e, quindi, di un servizio, non solo non è possibile, ma non avrebbe altro senso che quello di privare un comune della propria autonomia nell’individuare il tipo di prestazioni che intende fornire alla propria collettività. In tale prospettiva, il riferimento ad ipotetiche responsabilità erariali delle amministrazioni comunali in relazione all’istituzione del registro acquista il tono inquietante della minaccia di conseguenze che, se si seguisse il ragionamento fatto nella circolare, dovrebbero allora valere per qualsiasi attività che il Comune scegliesse di porre in essere per curare il bene della propria comunità ove non espressamente previste da disposizioni di legge. Tutto ciò in contrasto, non solo con le previsioni costituzionali già citate, ma anche con quelle legislative; basta pensare in questo senso agli articoli 3 e 13 del testo unico degli enti locali che attribuiscono al Comune una generale competenza di cura degli interessi della collettività, in particolare nell’area dei servizi alla persona.
Da ultimo, la circolare argomenta il preteso divieto di istituzione dei registri comunali con la considerazione per la quale la materia del “fine vita” rientrerebbe nell’esclusiva competenza statale. Ora, considerare il “fine vita” una materia è già di per sé improprio, ma, al di là di questo, nuovamente si tratta di un argomento inconferente e che in ogni caso vuole provare troppo. Il fatto che in un certo ambito materiale la competenza normativa spetti allo Stato non importa di per sé l’impossibilità per un comune di istituire un servizio che agevoli lo svolgimento dei diritti a ciò collegati, senza, si ripete, istituirne di nuovi o limitare quelli esistenti. Sarebbe come dire che un comune non può decidere di fornire lezioni gratuite di lingua italiana agli stranieri residenti nel territorio comunale perché la materia immigrazione è di esclusiva competenza statale e la legge non ha espressamente previsto che i comuni possano svolgere questo tipo di servizio.
In realtà ciò che la circolare vorrebbe lasciar intendere è che, in mancanza di una legge, un soggetto che abbia definitivamente perduto coscienza senza possibilità di recupero non ha alcun diritto a veder rispettato quanto abbia precedentemente dichiarato in ordine ai trattamenti sanitari a cui intende o non intende essere sottoposto. Quello che si vuol negare è, ancor prima che una prerogativa dei comuni, un diritto individuale, quello alla propria autodeterminazione. L’affermazione per cui il “fine vita” sarebbe materia di competenza esclusiva dello Stato nasconde in realtà la volontà di sottrarre la decisione non tanto ai Comuni, che peraltro non hanno né possibilità, né volontà di dettare regole in materia, ma ai singoli individui.
Sulla esistenza invece di tale diritto, che è la stessa Costituzione a riconoscere a ciascuno, vietando i trattamenti sanitari senza consenso, e che la giurisprudenza ha mostrato più volte di ritenere direttamente esigibile e configurabile come legittima pretesa, si fonda la possibilità, in assenza di una legge che disponga diversamente, che un Comune decida in autonomia di organizzare e fornire un servizio che renda questo diritto più facilmente esercitabile.
Cosa possono fare allora i Comuni che hanno già istituito o stanno istituendo il servizio di cui si discute?
Non tenere in alcun conto una circolare che, alla luce di quanto sopra considerato, offende la loro autonomia e in ogni caso appare priva di contenuti vincolanti.
Alessandra Pioggia