Gli statunitensi, il viaggio ce l’hanno nel dna. Ovviamente. E sono molti i personaggi illustri che hanno varcato l’Oceano per un viaggio a ritroso nella “vecchia Europa”.
Puntando l’obiettivo, come sempre, su Milano, il primo che troviamo non è una persona qualsiasi, ma addirittura un futuro Presidente. Nel 1787, infatti, Thomas Jefferson, ambasciatore degli Stati Uniti a Parigi, passò in Lombardia. Di cui, da bravo proprietario terriero, nel suo Memorandums notò soprattutto la bellissima pianura: «Dal Ticino a Milano è tutto grano. Ci sono soprattutto una buona quantità di gelsi, un po’ di noci e qua e là un mandorlo. Mi dicono che qui fichi e melograni crescono senza riparo. Prima c’erano ulivi, ma un grande freddo li ha uccisi nel 1709, e non sono stati ripiantati». Un paesaggio quasi bucolico, nel quale fu il riso ad interessare particolarmente Jefferson, a tal punto da nasconderne una piccola quantità nel bagaglio per portarla negli Stati Uniti, un gesto che a quei tempi veniva punito addirittura con la pena di morte. Della città, invece, Jefferson scrisse poco, citando qualche palazzo (come il Belgioioso, il cui salone gli parve superiore a qualsiasi cosa avesse mai visto) e criticando il Duomo, definito nelle sue lettere «un oggetto degno di contemplazione» ma anche uno «tra i più rari esempi del cattivo gusto del denaro».
Il turismo statunitense, comunque, esplose solo nella seconda metà dell’800, e Milano può vantare ospiti di enorme spessore. In questo breve racconto ci limiteremo a tre fuoriclasse, iniziando con Herman Melville, che fece capolino nella nostra città nell’aprile 1857, qualche anno dopo l’immortale Moby Dick, un libro che, ai tempi, non aveva suscitato interesse. Era quindi in crisi, lo scrittore newyorkese (che non avrebbe più incontrato il consenso del pubblico), il quale alloggiò all’Hotel de la Ville e si dedicò al “tour classico” della città, di cui descrisse il Duomo («Potrei benissimo rimanere ospite del cielo in cima al Duomo di Milano»), Brera, S. Maria delle Grazie («Vecchia curiosa chiesa di mattoni») e il Cenacolo, che lo fece riflettere: «Significato dell’ultima cena. Le gioie del banchetto fanno presto a finire. Uno mi tradirà, uno di voi. Gli uomini sono così falsi. Lo splendore dell’amicizia è così evanescente, l’egoismo è così durevole».
Dieci anni dopo, nel 1867, fu Samuel Langhorne Clemens, altrimenti conosciuto come Mark Twain, a visitare l’Italia, lasciando le sue testimonianze ne Gli innocenti all’estero, un originale diario di viaggio, talvolta sarcastico, che comprese pure Milano. Di cui, all’inizio, elogiò il Duomo: «La creazione più maestosa che umano intelletto abbia potuto concepire. Una visione, un miracolo, un canto sbozzato nella pietra, una poesia scolpita nel marmo». Salvo poi entrarvi e inorridire davanti alla scultura di San Bartolomeo («Mi apparirà in sogno e la vedrò mentre appoggia sul capezzale il braccio nodoso e mi guarda con gli occhi senza vita. Sognerò di sentirsi infilarsi fra le lenzuola accanto a me e toccarmi con i suoi muscoli spellati e le gambe gelide e fibrose») e dentro la cripta di San Carlo: «Il capo reclino era annerito dagli anni, la pelle secca era aderente all’osso, scomparsi gli occhi, una cavità sulla tempia e un’altra sulla guancia, le labbra, niente altro che pelle erano dischiuse in un orrendo sorriso! Sul petto giacevano la croce e il pastorale d’oro massiccio con diamanti e smeraldi. Come apparivano poveri, miserabili, volgari quei gingilli al cospetto della solennità, della grandiosità, della terribile maestà della morte!»
Twain, da bravo americano, si impegnò poi a quantificare ogni cosa: dimensioni della chiesa, statue e pinnacoli. Arrivando perfino ad ipotizzare (perfetto prototipo del turista statunitense attuale, che quando si reca nella Cattedrale chiede subito quanto è costata come se volesse comprarla) in oltre 84 milioni di dollari le spese totali per la costruzione dell’opera. E forse fu questa cifra enorme, unita alla visita del Tesoro del Duomo (con degli oggetti da lui ritenuti simboli di superstizione) e a una guida dal pessimo inglese, a indisporre Twain che visitò poi senza emozione la Scala («Un luogo spazioso») e l’Ambrosiana, dove giudicò di un «volgare color giallo» un capello di Lucrezia Borgia. Solo la passeggiata sul corso Venezia, allora di gran moda, riconciliò lo scrittore con Milano: «Al crepuscolo prendemmo una carrozza e con la nobiltà del posto percorremmo i viali alberati, poi, dopo cena, sorseggiammo vino e gustammo un gelato in un bel giardino. La musica era eccellente, i fiori e i cespugli belli a vedersi, la scena piena di vita, la gente gentile e cortese. Cominciamo a diventar saggi e a comprendere per che cosa sia fatta la vita».
Il giovane Twain, tuttavia, teneva sempre il colpo in canna, e così, dopo l’elogio della vita europea, ironizzò sulle signorine milanesi che «avevano una certa peluria sotto il naso», prendendosela poi pure con un tavolo di biliardo e le sue stecche malridotte... Arrivando infine a criticare apertamente il Cenacolo («I volti si sono rovinati e squamati e hanno perso quasi ogni espressione. I capelli sono diventati indistinte masse sulla parete e gli occhi non hanno più alcuna vitalità»), equiparando i visitatori che sprecavano incantati aggettivi ad un uomo adorante una vecchia «baldracca, cieca, sdentata, sfigurata dal vaiolo».
Un paragone senza dubbio forte, volutamente eccessivo. Mentre più sobrie appaiono le sue impressioni ricavate da un altro viaggio e raccontate nel libro Vagabondo in Italia, in cui Twain descrisse la Galleria («Mi piacerebbe viverci per sempre») e alcune, deliziose, scenette di vita milanese: «Su un autobus mostrai delle monete di rame al fattorino, il quale ne prese due. Poi andò a prelevare la tabella delle tariffe e mi fece vedere che aveva preso soltanto l’importo giusto. Così annotai: i fattorini degli autobus italiani non imbrogliano… Vicino alla cattedrale fui testimone di un altro caso di probità. Un vecchio venditore ambulante vendeva bambole e ventaglietti. Due bambini americani comprarono i ventagli, dettero al vecchio un franco e tre monete di rame e quindi se ne andarono; ma furono richiamati e il franco, più una delle monete di rame, vennero loro restituite… In un altro quartiere ci imbattemmo in sei italiani impegnati in una violenta discussione. Si muovevano con fiero passo di danza gesticolando col capo, le braccia, le gambe, tutto il corpo. Passammo almeno mezzora nell’attesa di poter aiutare a impacchettare il morto: finirono invece per abbracciarsi calorosamente fra di loro: tutti i problemi erano stati risolti…».
Infine, c’è anche un terzo, grande scrittore statunitense che passò a Milano tra il 1872 e il 1873, raccogliendo le sue note in Italian Hours. Si tratta di Henry James, che nel capitolo intitolato “Da Chambéry a Milano” descrisse ampiamente il Duomo («Mentre mi aggiravo intorno alla sua base frastagliata, sentii ergersi sopra di me, alla luce delle stelle, i suoi grigi misteri…»), oltre all’immancabile cripta del Borromeo, evidentemente, a quei tempi, un punto obbligato: «Lo spettacolo in questione può essere considerato da alcuni un evento mostruoso, oppure una sinistra commedia». Quindi, salito sul tetto della Cattedrale, dove «migliaia di visitatori hanno ricoperto con i loro nomi ogni pollice quadrato delle pareti lungo la scala a chiocciola» e da cui «si gode il più bel panorama della Lombardia», James continuò il percorso tradizionalmente offerto ai turisti che comprendeva il solito Cenacolo («Ci chiediamo se i nostri figli troveranno nell’affresco più maestoso e sfortunato del mondo qualcosa di più delle ombre di un’ombra. Da un secolo o due a questa parte, esso è famoso, per così dire, per essere un illustre malato cui la gente fa visita per constatarne lo stato di salute, sospirando all’atto di allontanarsi e camminando in punta di piedi, quasi si trovasse al capezzale di un moribondo»), la Pinacoteca di Brera («Raffaello era un genio più felice -di Leonardo-; ammirate il suo incantevole Matrimonio della Vergine, magnifico come un primo, profondo sorriso di una consapevole ispirazione»), l’Ambrosiana («paradiso dei bibliofili») e la «possente basilica di Sant’Ambrogio, con i suoi mosaici così crudelmente solenni».
Il secolo si stava per chiudere, ma questo legame tra letteratura americana e Milano si sarebbe ripetuto nel Novecento, basti pensare all’appassionato e anticonvenzionale ritratto della città contenuto in Italian backgrounds di Edith Newbold Wharton e a quell’Addio alle armi del premio Nobel Hemingway, che trasformò Milano nel palcoscenico di una struggente storia d’amore (riprendendola poi anche in un paio dei Quarantanove racconti). Due libri molto diversi, ma che ogni buon milanese dovrebbe leggere. Saludi.
Mauro Raimondi
Citazioni tratte da: Dal tetto del Duomo. L’immagine di Milano nei secoli attraverso le parole dei viaggiatori stranieri, Touring Club, 2007
Libri citati:
T. JEFFERSON, Memorandums taken on a journey from Paris into the Southern parts of France and Nothern of Italy, in the year 1787 / Viaggio nel Sud della Francia e nel Nord d’Italia, Ibis 1997
H. MELVILLE, Diario italiano, Biblioteca del Vascello 1991
M. TWAIN, The innocents Abroad / Gli innocenti all’estero ovvero il viaggio dei novelli pellegrini, Rizzoli 2001
Vagabondo in Italia, Biblioteca del Vascello 1991
H. JAMES, Italian hours / Ore italiane, Garzanti 2006
E. NEWBOLD WHARTON, Italian backgrounds / Paesaggi Italiani, Edizioni Olivares 1995
E. HEMINGWAY, The first forty-nine stories / Quarantanove racconti, Mondadori 1982
A Farewell to arms / Addio alle armi, Mondadori 1965