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Yoani Sánchez. Tredici cubani attendono la libertà
13 Novembre 2010
 

Oggi è il giorno in cui il governo cubano dovrebbe liberare un gruppo di intellettuali che hanno sofferto sette anni di ingiusta detenzione per aver espresso un pensiero libero e per essersi opposti al dogma castrista. Vedremo che cosa accadrà…

 

Sette anni sono molto lunghi quando si vive in una cella umida, tra delinquenti comuni, con il solo conforto di una visita familiare ogni tre mesi. Se si sconta una condanna ingiusta in una cella oscura accusati del delitto di pensare, di avere un’opinione e con la sola colpa di aver tenuto un comportamento da uomo libero, la reclusione è doppiamente intollerabile.

In ogni caso, nei paesi dove si viene imprigionati per aver seguito i principi dettati dalla coscienza civica, non c’è persona più rispettabile di un carcerato. Al contrario, molti che circolano liberi per strada si sentono colpevoli, perché sanno che tutte le cose di cui beneficiano sono la ricompensa concessa a chi non si ribella, a chi preferisce condurre una vita da pecora.

 

La Primavera Nera

 

I detenuti in seguito ai fatti della Primavera Nera del 2003 ci hanno impartito una vera lezione di civismo, quando il Governo Cubano si approfittò del fatto che tutto il mondo seguiva con ansia la guerra in Iraq per condannare davanti ai tribunali ben 75 dissidenti.

Molti degli accusati per aver infranto la temuta Legge 88 - nota come Legge Bavaglio - non vennero resi noti né prima né dopo quella farsa giuridica, ma la vita portò alcuni a dividere lo spazio nelle carceri di alta sicurezza a centinaia di chilometri dalle loro abitazioni.

In questo modo si fortificò l’amicizia tra diversi dissidenti, crebbero gli affetti e la solidarietà divenne un alimento migliore della insipida minestra che veniva somministrata quotidianamente.

 

Il castigo di amare il proprio paese

 

Le recenti scarcerazioni di prigionieri politici hanno prodotto l’uscita della maggioranza di questi detenuti dal paese. Non si tratta di un esilio del tutto obbligato, perché è stato chiesto precedentemente, a loro e ai rispettivi familiari, se volevano andare a vivere in un’altra parte del mondo.

Di sicuro, quando si vive tra le sbarre, sperando di riabbracciare presto moglie, figli e madre, la scelta tra restare in galera o partire per l’estero viene fatta sotto l’effetto di un’enorme pressione.

Inoltre chi ha rifiutato di uscire dal paese è stato lasciato in fondo alla lista delle liberazioni, come forma di punizione. Questo è il caso dei 13 prigionieri di coscienza che restano detenuti, perché non hanno ancora deciso tra le pareti di una cella e la spada dell’esilio.

 

Una mano cattolica

 

Oggi, 7 novembre, è il giorno in cui termina la scadenza pubblica annunciata dal Governo Cubano per aprire i catenacci che ancora tengono confinati questi uomini. Ai primi di luglio è uscita una nota sul quotidiano Granma, nella quale si faceva riferimento a un incontro tra l’alta gerarchia della Chiesa Cattolica e il Governo, dove era stato siglato un accordo che fissava le ulteriori scarcerazioni nel giro di tre o quattro mesi.

Raúl Castro ha ratificato pubblicamente questo compromesso e tutti sappiamo che per portarlo a compimento non serve una complicata infrastruttura materiale né occorrono risorse ulteriori, ma - semplicemente - basterebbe un ordine superiore per mettere in pratica la volontà di aprire le celle.

Vale la pena ricordare che anche il Generale una volta si è trovato dietro le sbarre, nel lontano 1953, quando insieme al fratello e ad altri uomini presero d’assalto la caserma Moncada. Venne condannato a 15 anni, ma scontò soltanto 22 mesi, grazie a un’amnistia che la dittatura del tempo si vide obbligata a promulgare. Un leader che è stato a sua volta prigioniero dovrebbe sapere che se vuole governare un paese dovrebbe farlo anche in nome di chi si trova nei penitenziari.

Il ruolo del secondino è molto attraente per chi una volta è stato dietro le sbarre, così alcuni finiscono per alzare dei muri e confinano altri nelle prigioni, per far provare quel senso di soffocamento tipico del carcerato che una volta anche loro hanno sofferto. Gli accusati di un tempo sotto il regime di Fulgencio Batista hanno creato leggi e tribunali che si comportano con maggior rancore e severità contro i loro oppositori rispetto alla situazione prima della Rivoluzione.

 

I coraggiosi

 

I 13 prigionieri politici che ancora scontano una condanna affermano che possiedono volontà ed energia per continuare a resistere ancora diversi anni, ma oggi potrebbe essere il giorno per farla finita con questa follia. Le loro spose li attendono a casa, alcune immaginano che domani si sveglieranno, troveranno i loro uomini accanto nel letto e prenderanno il primo caffè insieme.

Tutto fa pensare che durante questa domenica grigia e fredda un militare indurito dal potere prenderà il telefono e farà alcune chiamate. Speriamo che decida di comportarsi non come la guardia che nasconde le chiavi, ma come il prigioniero che è stato una volta, a cui un altro Generale aprì le porte di una cella.

 

Yoani Sánchez

(da El Comercio, Perù, 7 novembre 2010)

Traduzione di Gordiano Lupi

 

 

 

Nota del traduttore: L’articolo è del 7 novembre, ma oggi 13 novembre non è ancora accaduto niente e i 13 prigionieri cubani sono ancora dietro le sbarre. Il governo attende che i reclusi optino per l’esilio “volontario”. L’articolo di Yoani conserva tutta la sua stringente attualità.


 
 
 
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